Cosa succede in Tibet?

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  1. encovata
     
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    Gentili Centri Associati,
    in allegato una riflessione del ven. Lama Paljin Tulku Rinpoce nei confronti della attuale situazione tibetana, che rispecchia "in toto" anche la posizione del Centro Mandala .


    Cordialmente
    La segreteria UBI


    BEATO COLUI CHE PUO’ DIRE “NON VIOLENTO E’ IL MIO NOME”
    Note del Ven. Lama Paljin Tulku Rinpoce in margine ai recenti fatti del Tibet

    Il Buddhismo insegna che nulla succede per caso ma che tutto dipende da cause e condizioni. Le cause e condizioni che hanno ancora una volta spinto i tibetani a manifestare, in Tibet e fuori, il loro dissenso con il governo cinese sono ben note a tutti. Ad esse va aggiunta l’imminenza dei Giochi Olimpici che dovrebbero consentire l’omologazione della Cina come paese degno della considerazione mondiale.
    Questi sono gli ingredienti che recentemente hanno fatto esplodere la situazione a Lhasa e colpito emotivamente il mondo libero.
    Ma dobbiamo chiederci a chi serve la violenza espressa da entrambe le parti, poiché la violenza, da qualunque parte arrivi, è sempre un male.
    L’informazione televisiva ha riportato in evidenza problemi che il sangue versato in anni di impari antagonismo non ha ancora potuto risolvere.
    Fin dal momento dell’invasione, e sono trascorsi più di cinquant’anni, nessun paese e nessuna Autorità internazionale ha concretamente cercato di modificare la posizione della Cina verso il popolo tibetano. Gli interventi a favore di una tradizione che scompare con grave danno morale e culturale per l’umanità, si sono sempre rivelati espedienti di facciata e sarebbe ingenuo credere che i moti e la repressione in corso possano cambiare l’ordine delle cose.
    Siamo nuovamente di fronte ad un fatto mediatico che strumentalizza il dramma di un popolo a fini sensazionalistici.
    E’ successo alcuni mesi fa in Cambogia: il mondo ha seguito con il fiato sospeso la marcia silenziosa dei monaci buddhisti e si è riempito di nastrini rossi portati al polso o al collo in segno di solidarietà. Poi c’è stata la prevedibile repressione, e oggi è tutto dimenticato.
    Sarà così anche per il Tibet: la gente resta colpita dal numero dei morti ma dimentica presto i motivi per cui le vittime si sono immolate.
    Nel gioco del “chi ha ragione e chi ha torto” si perde di vista il problema, e le possibili soluzioni diventano oggetto di fantapolitica.
    Dobbiamo aver ben presente che il Tibet è troppo piccolo e poco importante per influenzare lo scenario politico mondiale. Per anni è stato usato come prova della crudeltà comunista, e quindi non conveniva cercare di modificare la sua condizione di minoranza oppressa. Ora la Cina è troppo influente sul piano finanziario, e quindi non conviene irritarla affrontando la questione tibetana.
    Intanto la realtà socio-economica del Tibet, dove vivono sette milioni di cinesi contro quattro milioni di tibetani, è già cambiata in maniera irreversibile. I progetti di urbanizzazione hanno creato vere e proprie città, con relativi palazzi in cemento, là dove prima si trovavano piccoli villaggi con le tipiche casette tibetane. L’energia elettrica ha sostituito le lampade a burro ed ha permesso l’insediamento di attività industriali e commerciali su larga scala. Una ferrovia di oltre mille chilometri collega Lhasa con l’entroterra cinese. Il Tibet può essere attraversato in auto da oriente ad occidente e tra breve un autostrada arriverà all’Everest.
    E’ uno scempio? Allora non andiamoci.
    Era inevitabile, perché questi sono i segni del progresso? Allora cerchiamo di fare in modo che di questo progresso i tibetani siano i beneficiari anziché le vittime.
    E lo potranno essere soltanto quando il rapporto con la loro terra sarà nuovamente vissuto con serenità.
    Oggi i tibetani si sentono colonizzati e temono di perdere la loro identità etnica, ma questo è già successo. In tibet i giovani hanno il cellulare, usano il computer, studiano il cinese e si devono confrontare con gli usi e i costumi cinesi. Di quale cultura saranno portatori?
    Forse un giorno la storia dirà che, oltre il confine, ad insidiare i tibetani privati della propria autonomia, c’era una sconosciuta divinità terrifica: la modernità. E che nel “paese delle nevi” ad aspettare i cinesi, che stanno riscoprendo a migliaia il buddhismo, c’era una rinnegata qualità pacifica: la buddhità.
    Allora, come è già avvenuto in altri paesi, che dopo averli distrutti nel nome della rivoluzione si sono poi impegnati a recuperare i valori del passato, saranno gli stessi cinesi a voler preservare la tradizione tibetana. Sempre che non sia troppo tardi.
    E’ da sprovveduti pretendere una ormai impossibile indipendenza del Tibet (cosa che Sua Santità il Dalai Lama ha già rinunciato a chiedere da tempo), ma è giusto rivendicare una reale autonomia religiosa ed il riconoscimento di una tradizione che si è formata in secoli di storia.
    Ciò può avvenire soltanto attraverso un negoziato. Non con la violenza ma con l’accordo, con la pazienza e la perseveranza.
    Il mondo non deve abbandonare i tibetani. Ma non è certo con i cortei, con i sit-in e con gli scontri davanti alle ambasciate cinesi che si deve affrontare questa situazione.
    Se veramente si vuole dare un segnale forte, dimostrare una vera volontà di cooperazione, aiutare a mediare, questo è il momento: le Nazioni Unite si mobilitino per una pacifica soluzione della vertenza. L’Europa dia il suo appoggio.
    Da più parti si chiede di fare pressione sulla Cina perché siano rispettati i diritti umani. Nessuno è in grado di fare concrete pressioni su questo colosso economico, destinato a diventare in pochi anni la maggiore potenza mondiale, ma la politica del dialogo ed il solerte monitoraggio nei confronti di una nazione che si risveglia alla civiltà, può dare positivi risultati per il futuro non solo del Tibet ma dell’intero pianeta. E’ in questa prospettiva che i Governi dei Paesi democratici devono aiutare la Cina ad affrontare nel modo più consono il suo inarrestabile processo di democratizzazione.

    NON BOICOTTARE LE OLIMPIADI

    La realtà della situazione tibetana doveva essere ben presente ai membri del Comitato Olimpico Internazionale che anni fa hanno assegnato alla Cina l’organizzazione dei Giochi Olimpici 2008.
    Dire che ci si aspettava che questa concessione modificasse in un colpo solo la politica cinese sui diritti umani, vuol dire non tenere conto della gradualità con cui sono sempre avvenute nel mondo le trasformazioni sociali.
    Per comprendere le ragioni che porteranno allo svolgimento delle Olimpiadi, indipendentemente da ciò che oggi avviene in Tibet, basta pensare ai trentotto miliardi di dollari spesi per l’organizzazione, alle cifre da capogiro versate dagli sponsor internazionali (quasi tutti occidentali), agli impegni presi dalle maggiori emittenti televisive del globo, e soprattutto agli enormi interessi economici che gravitano intorno ad un paese con centinaia di migliaia di individui che si stanno aprendo ai consumi di massa e al capitalismo.
    Fermare le Olimpiadi è dunque impossibile, boicottarle sarebbe un grave errore.
    Non dobbiamo dimenticare che 10.000 atleti di 202 paesi hanno speso per anni denaro, tempo ed energie in vista di questo avvenimento che rappresenta per tutti il coronamento di un sogno.
    Ma soprattutto dobbiamo considerare le Olimpiadi come una grande festa dello sport e dell’amicizia fra i popoli, che può aprire la mente e il cuore del popolo cinese e dei suoi reggenti.
    Nate come semplice confronto sportivo, le Olimpiadi, con il loro forte peso mediatico, sono oggi diventate il termometro dello stato politico, economico e atletico della società umana e c’è da augurarsi che i princìpi di giustizia, lealtà ed eguaglianza espressi nei giochi, vengano recepiti dalla Cina non soltanto per ragioni di immagine ma anche come esempio da seguire sulla via della civiltà.
    La fiaccola olimpica attraverserà prossimamente un Tibet sconvolto dai recenti avvenimenti: speriamo che la sua luce possa portare a Pechino un messaggio di fratellanza e di rispetto per l’altro che anche i cinesi sappiano fare proprio.
    La storia delle Olimpiadi è costellata di iniziative prese da singoli atleti contro la violazione dei diritti umani in certi paesi oppressi.
    Non sarebbe male se, anziché boicottare le Olimpiadi o manifestare contro la Cina, gli atleti presenti trovassero, tutti insieme, il modo di testimoniare con un gesto comune, nella giornata di chiusura, quella convinta adesione ai valori di libertà e di pace di cui i Giochi Olimpici sono portatori sin dalle origini.
     
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103 replies since 12/3/2008, 19:27   4218 views
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