Vacuità

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  1. Kagyu Dorje
     
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    Questa é una delle differenze fondamentali tra le varie scuole.

    Visto che nel forum c'é finalmente l'iterazione tra queste credo che avere un'idea delle differenti sfumature possa aiutare ad una reciproca comprensione. Queste poche righe non sono sicuramente esaustive, ma credo siano sufficenti a dare un'idea generale sull'argomento.

    Fonte: Wikipedia.

    La Vacuità
    (sanscrito: शून्यता śunyātā, pāli: suññatā, cinese: 空 pinyin: kōng, giapponese: kū, tibetano: stong-pan-yid) è una delle dottrine fondamentali nel Buddhismo.

    La dottrina della "Vacuità" acquisisce tuttavia significati diversi e diverso ruolo nelle varie scuole che si sono succedute nel corso della Storia del Buddhismo, alcune delle quali tutt'oggi esistenti. In questo senso è preferibile suddividere l'esposizione di questa dottrina a seconda dei testi di riferimento o delle scuole che la insegnano.
    Calligrafia di Kanjuro Shibata XX.Rappresenta l' Ensō (円相) che, nella simbologia del Buddhismo Zen, indica sia l'universo che la vacuità, quest'ultima intesa come Realtà assoluta
    Calligrafia di Kanjuro Shibata XX.
    Rappresenta l' Ensō (円相) che, nella simbologia del Buddhismo Zen, indica sia l'universo che la vacuità, quest'ultima intesa come Realtà assoluta
    Indice


    * 1 La dottrina della vacuità negli Āgama-Nikāya del Buddhismo dei Nikaya e del Buddhismo Theravāda
    * 2 La dottrina della vacuità nei Prajñāpāramitāsūtra
    * 3 La dottrina della vacuità nelle scuole Mahayana Mādhyamika e Cittamātra


    La dottrina della vacuità negli Āgama-Nikāya del Buddhismo dei Nikaya e del Buddhismo Theravāda

    La presenza nelle più antiche scritture buddhiste dell'attribuzione al Buddha Shakyamuni dell'insegnamento della "vacuità" è indubitabile come è indubitabile, in queste stesse scritture, la preoccupazione del fondatore del Buddhismo che questo insegnamento potesse essere addirittura dimenticato. Così afferma il Buddha Shakyamuni nel Samyutta-nikāya del Canone pali: «I monaci non vorranno più ascoltare e studiare i sutta proclamati dal Tathagata, profondi profondi nel significato, che giungono oltre il mondo e riguardano la "vacuità" (sunnatapatismyutta) ma presteranno solo ascolto ai sutta profani proclamati dai discepoli, composti dai poeti, poetici e adornati di belle parole e sillabe.». Ma se nel Majjhima-nikāya, il Buddha Shakyamuni indica l'irrealtà, la vacuità delle cose, come costantemente nei vari agama-nikaya espone l'insegnamento dell' anatta ovvero della "vacuità" intesa come inesistenza di una sostanzialità inerente il soggetto che percepisce i fenomeni, è nel Culasuññata Sutta, dove il Buddha Shakyamuni entra nel dettaglio di questa dottrina come esperienza interiore quando, rispondendo ad Ananda su una sua precedente affermazione nella quale sosteneva di "dimorare pienamente in uno stato di vacuità" afferma: «Certamente, o Ananda, tu hai ben udito, ben appreso, ben inteso e ben ritenuto le mie parole. Adesso, come allora, o Ananda, io dimoro pienamente in uno stato di vacuità. Così come questo palazzo della madre di Migara è ora vuoto di elefanti, di buoi, di cavalli, vuoto d'oro e d'argento, vuoto di gruppi di uomini e di donne, e la sua sola non vacuità è questa unica cosa, la comunità dei monaci, allo stesso modo, o Ananda, il monaco non pone mente all'idea di villaggio, non pone mente all'idea di uomo, ma pone mente a quest'unica cosa, alla foresta. Nell'idea di foresta la sua mente si placa, si ferma, si libera; ed egli riconosce: 'Le cure (le preoccupazioni, le ansie) che dipendevano dall'idea di villaggio non esistono più; le cure che dipendevano dall'idea di uomo non esistono più e l'unica cura che rimane è quella che dipende dall'idea di foresta». Nel Culasunnatasutta il Buddha Shakyamuni non si ferma a questo "svuotamento" dalle "ansie" del mondo ma, in un incessante processo di svuotamento di tutti i riferimenti, ovvero dell'idea di 'foresta', dell' 'idea di terra', dell' 'infinità dell'idea di spazio', dell' 'infinità dell'idea di coscienza', della 'nullità', della 'né percezione né non percezione', del 'raccoglimentale privo di segni', giunge a concludere che «anche questo 'raccoglimento mentale privo di segni' è coeffettuato e concepito (non è la Realtà ultima); e tutto ciò che è coeffettuato e concepito è impermanente, destinato a cessare. [...] Egli comprende che il suo pensiero è vuoto dell'impurità del desiderio, dell'impurità dell'esistenza e dell'impurità della nescienza e che l'unica non vacuità è quella che dipende da questo corpo, sestuplice sede dei sensi, conseguenza della vita. [...] In verità, o Ananda, tutti coloro, asceti o brahmana, che nel futuro otterranno una stabile dimora nella purissima, suprema vacuità, raggiungeranno e dimorranno proprio in questa purissima e suprema vacuità. [...] Perciò, o Ananda, voi vi dovete esercitare così: "Io otterrò una stabile dimora nella purissima, suprema vacuità» . Riccardo Venturini, in riferimento a questo sutta, nota che «il Buddha descrive come procedere verso i livelli più elevati di vacuità mediante lo svuotamento della mente dai contenuti propri dei livelli progressivamente superati. Al più alto livello di vacuità basati sulla meditazione di calma, il Buddha osserva che ciò che rimane è costituito dalla non-vacuità dei "sei campi sensoriali che, condizionati dalla vita, sono basati sul corpo stesso"». Questo, secondo Riccardo Venturini, implica che «Il metodo usato, portato alla sua estenuazione, si rovescia nel contrario e dall'osservazione dei caratteri 'negativi' della realtà fenomenica (impermanenza, insoddisfacenza e mancanza di esistenza inerente) si giunge a incontrare i caratteri 'positivi' della Realtà incondizionata (permanenza, beatitudine, realtà), come d'altra parte l'estasi/vacuità si rovescia nella molteplicità/pienezza: essendo ancora 'posizioni' che si muovono nel mondo del dualismo, esse rivelano e si tramutano nel contrario».



    La dottrina della vacuità nei Prajñāpāramitāsūtra

    Nei trentotto testi che costituiscono l'insieme dei Prajnaparamitasutra (composti tra il I secolo a.e.v. e il VII sec. e.v.), la dottrina della vacuità riveste un ruolo centrale e fondamentale. Si può sostenere che fin dai Prajnaparamitasutra più antichi, l'estensore degli stessi, che potrebbe voler riportare degli insegnamenti dello stesso Buddha Shakyamuni non accolti negli agama-nikaya, accompagni la dottrina della vacuità con la paramita prajna ritenuta l'ultima e la più importante già nelle scuole del Buddhismo dei Nikaya (scuola Sarvastivada). Nel complesso la letteratura dei Prajnaparamitasutra elenca venti tipi di vacuità (sanscrito vimsatisunyata):

    1. Vacuità degli organi di senso (adhyatanasunyata).
    2. Vacuità dei fenomeni percepiti (bahirdasunyata).
    3. Vacuità degli organi di senso e dei fenomeni percepiti (adhyatanabahirdasunyata).
    4. Vacuità della vacuità (sunyatasunyata).
    5. Vacuità dello spazio (mahasunyata).
    6. Vacuità dell'assoluto (paramarthasunyata).
    7. Vacuità dei fenomeni condizionati (samskrtasunyata).
    8. Vacuità dei fenomeni non condizionati (asamskrtasunyata).
    9. Vacuità di ciò che è al di là dell'eterno e del nulla (atyantasunyata).
    10. Vacuità di ciò né inizia né termina, del Samsara (anavaragasunytata).
    11. Vacuità di ciò che degli insegnamenti che vanno accolti (anavakarasunyata).
    12. Vacuità dell'intima natura dei fenomeni (prakrtisunyata).
    13. Vacuità di qualsiasi fenomeno o dharma (sarvadharmasunyata).
    14. Vacuità delle carattetistiche di ogni singolo dharma (svalaksanasunyata).
    15. Vacuità dell'inconcepibile (anupalambhasunyata).
    16. Vacuità dei fenomeni privi di identità (abhavasvabhavasunyata).
    17. Vacuità dei fenomeni che posseggono delle sostanzialità (bhavasunyata).
    18. Vacuità di ciò che è privo di sostanzialità (abhavasunyata).
    19. Vacuità dell'identità (svabhavasunyata).
    20. Vacuità della natura trascendente (parabhavasunyata).

    Tali "vacuità" stanno ad indicare che ogni forma, esistenza o non esistenza, è vacuità e ogni vacuità è ognuna di queste. Così come recita uno dei Prajnaparamitasutra più noti, il Prajnaparamitahrdayasutra (Il Sutra del Cuore della perfezione di saggezza): «Qui, O Sariputra, la forma è vacuità e la vacuità è forma; la vacuità non differisce dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia forma, quella è vacuità; qualsivoglia cosa sia vacuità, quella è forma». L'insieme del corpus scritturale dei Prajnaparamitasutra sembrerebbe contenere una serrata critica della dottrina dei dharma delle scuole del Buddhismo dei Nikaya, segnatamente della scuola Sarvastivada, le quali assegnavano esistenza reale ai costituenti (dharma) dei fenomeni, anche se le stesse denunciavano la "vacuità" del soggetto che questi fenomeni percepiva, ovvero negavano la soggettività, l'io individuale (dottrina dell' anatman). Questa "doppia vacuità" (vacuità del soggetto percipiente,anatman, e dei fenomeni percepiti) dei Prajnaparamitasutra andava a dunque a criticare i contenuti abhidharmici della scuola Sarvastivada, la quale giungeva a sostenere la presenza, nel soggetto che percepisce, di un dharma particolare, il prapti, che fungeva da ricettacolo per la sua retribuzione karmica. È chiaro che la dottrina della vacuità dei Prajnaparamitasutra ha dei precisi fondamenti, come abbiamo visto, negli agama-nikaya, tuttavia essa intende radicalizzare questi fondamenti come il cuore (hṛd) della dottrina del Buddha Shakyamuni (Buddhadharma). In un altro famoso Prajnaparamitasutra, il Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra (Sutra della perfezione della saggezza che recide come un diamante, o più brevemente Sutra del diamante) si giunge, peraltro coerentemente, a sostenere che «per quanto innumerevoli siano gli esseri in tal modo guidati verso il Nirvana proprio nessun essere è stato guidato verso il Nirvana. Perché? Se in un bodhisattva dovesse intervenire la nozione di un 'essere', egli non potrebbe venire chiamato bodhisattva. E perché? Non si dovrà chiamare bodhisattva colui nel quale interviene la nozione di un essere, o la nozione di un' anima vivente o di una persona».



    La dottrina della vacuità nelle scuole Mahayana Mādhyamika e Cittamātra

    La scuola Madhyamika è stata fondata da Nagarjuna nel II e.v. È dibattuto se, per quanto concerne il periodo del suo fondatore, essa possa essere inserita nel contesto degli insegnamenti Mahayana. La ragione di questi dubbi è fondata sul fatto che nelle opere attribuite con sufficiente contezza al filosofo indiano, non compare mai l'utilizzo del termine Mahayana né i riferimenti ai Prajnaparamitasutra. L'opinione di molti studiosi, tuttavia, si centra sulla natura di queste opere che sono didattiche e non polemiche. Intendono dimostrare la validità dei propri contenuti piuttosto che svilire l'autorevolezza delle fonti avversarie magari facendo leva su altre fonti. È possibile quindi che Nagarjuna abbia volontariamente evitato qualsivoglia riferimento ai Prajnaparamitasutra per evitare di discutere con i suoi interlocutori Sarvastivada sulla loro autorevolezza. D'altronde è innegabile, che a partire dalla sua opera maggiore, il Madhyamakakarika, egli non fa che ribadire la dottrina della vacuità esattamente come insegnata nei Prajnaparamitasutra. Nagarjuna si presenta dunque come un maestro buddhista che vuole dimostrare la fondatezza della critica dei Prajnaparamitasutra all' Abhidharma Sarvastivada. Per Nagarjuna, come per i Prajnaparamitasutra, il Buddha Shakyamuni aveva indicato, oltre l'impermanenza temporale (anitya), una ulteriore qualità, il sunyata di tutti i fenomeni: essi erano vuoti anche di una stessa loro identità in quanto dipendevano uno dall'altro sul piano temporale del presente, dell'immediato: esiste A solo in quanto esiste anche un non A. Tutti i fenomeni (dharma) sono quindi privi di identità, sono vuoti di identità. Tutti i dharma, secondo la lettura dell'insegnamenti del Buddha da parte di Nagarjuna, sono vuoti: poiché nessun fenomeno possiede una natura indipendente, si può dire che tutto ciò che esiste è vuoto. L'esperienza della vacuità è la via che porta alla "liberazione". Ma la vacuità non può essere conosciuto con il pensiero ordinario (o "convenzionale") che tratta dei fenomeni come se fossero indipendenti e stabili, dotati di natura immutabile e certa. Gran parte dell'opera di Nāgārjuna consiste pertanto in una critica raffinata delle diverse dottrine che sottinendono l'esistenza dei fenomeni in quanto tali, e che vengono per questo ridotte all'assurdo (prasanga). Da parte sua, Nāgārjuna non presenta alcuna dottrina, poiché l'esperienza della vacuità non è compatibile con alcuna costruzione filosofica. L'idea stessa della vacuità rischia di essere pericolosa, se la vacuità viene entificata.
     
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