Il non sé buddhista spiegato da Robert Wright

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  1. Ruhan
     
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    Né esiste, né non esiste, né esiste e non esiste assieme, né la negazione di entrambe.

    C'è la realtà che è la base della designazione. La designazione, però, non è il semplice linguaggio. Dietro la logica, dietro il principio di identità, ecco il volto della scimmia. Anzi: il volto del primo batterio che, per orientarsi, distingueva (in maniera assolutamente semplificata) elementi nel suo ambiente, ovvero: isolava alcune porzioni del reale dal resto del mucchio confuso e questo perché era evolutivamente e singolarmente utile ad un set di dati genetici (il che, come si sa da "Il gene egoista", è praticamente la stessa cosa). È lì che è nata la prima originaria forma di quello che è il nostro principio di identità. La logica e il linguaggio sono soltanto una forma più complessa di queste elementari forme di orientamento.

    Veniamo al "sé". Esso ha una utilità sempre entro questa generale economia orientativa: permette di isolare quel che ci serve isolare dal mucchio della realtà, attribuendo a tale supposta "porzione" una etichetta (inconsapevole, pre-riflessiva) utile per muoversi nel mondo. La distinzione del "sé" dalla alterità è compresa nel medesimo atto di distinzione delle "alterità" in varie unità distinte tra di loro: è la prosecuzione del movimento del batterio, il quale ritira se stesso o volge se stesso verso questo o quell'elemento (distinguendosi, elementarmente, da ciò che è altro da sé; isolandosi, perciò, in un "sé") nel medesimo atto di distinguere l'alterità in differenti unità (vantaggiose o svantaggiose etc.).

    Il "sé" non è altro che questo: una operazione di astrazione strumentale; una rilevazione di particolari strette affinità organizzative tra porzioni del mucchio chiamato "realtà". In che senso "strette affinità organizzative"? Nel senso che, se colpisco una particolare porzione di realtà, ne risentiranno anche altre organizzativamente affini in maniera stretta. Se colpisco, ad esempio, la schiena di una persona, a risentirne saranno anche tutte le altre sue "porzioni". Non ne risentirà, invece, l'albero a pochi centimetri di distanza. Eppure, tutto fa parte di quel con-fuso o inter-fuso mucchio chiamato "realtà" (che non é né uno, né molti; trascende ogni designazione). Questa affinità stretta tra "porzioni" di realtà noi la avvertiamo, grossomodo e provvisoriamente, attraverso il cosiddetto "senso del sé" (quando riguarda quelle porzioni che "siamo noi") e attraverso un, altrettanto grossolano e provvisorio, senso di "singolarità" che avvertiamo fuori di noi: ad esempio, consideriamo l'albero come un singolo oggetto.

    Semplici strumenti di sopravvivenza pratica selezionati fin dagli albori della cosiddetta "vita".

    Il "sé", dunque (per riassumere), è una semplice operazione elementare selezionata evolutivamente: diverse porzioni di realtà, strettamente affini, rilevano (se sono abbastanza complesse, come accade per le porzioni che compongono gli aggregati delle forme viventi) tale affinità sotto forma di una "informazione" che noi chiamiamo "sé" nelle sue forme più complesse.

    Perciò è come con le nuvole nella foto che ho postato. C'è un mucchio di realtà. In questo mucchio possiamo individuare delle forme secondo i nostri propri interessi e queste forme sono utili per indicare, per orientarci, per mappare strumentalmente e provvisoriamente la realtà. Ma rimangono forme verbali o indicative (se si preferisce). Non c'è davvero una identità chiamata "delfino" e non c'è neanche per un istante. Non esiste Ruhan vecchio o Ruhan nuovo. Entrambi sono semplici designazioni basate sul principio di identità; non hanno alcun corrispettivo reale là fuori, ovvero non esiste alcuna identità corrispondente che magari appaia e poi scompaia o che riappaia cambiata solo in parte. Aspettarsi ciò equivale a pensare che là fuori esistano il trapassato remoto o il futuro anteriore. Ovvero che uno strumento verbale o intellettivo, una nostra semplificazione basata su una pura astrazione, vaghi fuori dal nostro cranio nella complessità della realtà, come un fantasma in un castello scozzese.

    C'è la realtà, ovvero la base di designazione. Ma gli strumenti della designazione rimangono strumenti utili ad orientarci, provvisoriamente; essi corrispondono (in ultima istanza) a niente di reale. Semplici atti di astrazione che dicono moltissimo del nostro rapporto con la realtà e delle nostre necessità orientativo-organizzative (del rapporto di alcune "porzioni" — uso questo termine per intenderci, ma non esistono nemmeno davvero delle "porzioni": anche questo è un atto di astrazione — con il resto del mucchio del reale), ma poco della realtà tout court.
     
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34 replies since 11/10/2023, 09:29   653 views
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