Corpo di arcobaleno: antecedenti nel Canone pāli?

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    CITAZIONE (Mjölnir @ 31/1/2024, 11:49) 
    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è liberata dagli influssi impuri. Il discepolo dei Nobili, istruito, percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per un discepolo dei Nobili, istruito, v’è una coltivazione della mente”.

    Vedi? In questa traduzione, ariyasāvaka è stato reso come "discepolo dei Nobili", non come "discepolo degli ariani". E così pure, per aggiungere un esempio, per ariyāṭṭhaṅgikamagga: è il "nobile metodo a otto membra", non il "metodo ariano a otto membra".

    Edited by Fantasia - 31/1/2024, 13:23
     
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    L'appunto di Fantasia è esatto. Arya è usato nell'India "classica" post-vedica come sinonimo di "nobile", come le famose Quattro Nobili Verità, intese come verità "pregiate"/"elevate" ecc. non legate quindi alla nobiltà come status sociale.

    Nella lingua italiana "ariano" ha dei significati in ambito etnico o talvolta linguistico anche se ormai desueto, quindi non è applicabile nelle traduzioni dove il significato è palesemente quello di "nobile" e sinonimi vari.

    Chiuso l'OT, andate pure avanti che la discussione è interessante
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 31/1/2024, 13:07) 
    CITAZIONE (Mjölnir @ 31/1/2024, 11:49) 
    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è liberata dagli influssi impuri. Il discepolo dei Nobili, istruito, percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per un discepolo dei Nobili, istruito, v’è una coltivazione della mente”.

    Vedi? In questa traduzione, ariyasāvaka è stato reso come "discepolo dei Nobili", non come "discepolo degli ariani". E così pure, per aggiungere un esempio, per ariyāṭṭhaṅgikamagga: è il "nobile metodo a otto membra", non il "metodo ariano a otto membra".

    Certo, mi è chiaro che con ariya si intende nobile per quanto riguarda la terminologia buddhista. Credo sia anche abbastanza assodato che in sanscrito questo termine, nell'evolversi della lingua arriva ad identificare, all'epoca in cui furono scritti i testi buddhisti, una persona nobile d'animo. Precedentemente, probabilmente, questo termine indicava una nobiltà di ceto / casta e ancora prima identificava un determinato popolo. Probabilmente questo popolo, che aveva conquistato una parte dell'India del Nord, aveva assunto una posizione sociale dominante (nobiltà in senso politico e sociale del termine), da qui poi con il passare degli anni il termine è sfumato verso una nobiltà d'animo.
    Questa è una delle ipotesi.

    Detto questo, non mi scandalizzo se a volte è stato usato, più che altro in passato, il termine ariano anche nelle traduzioni italiane (o termine similare in lingue occidentali), come se non mi scandalizzo quando vedo una swastika in un tempio buddhista. Comunque non mi scandalizzerei nemmeno se vi vedessi una falce e un martello.

    Per quanto riguarda delle popolazioni storicamente definite ariane, la maggior parte della dottrina le ritiene di origine indoeuropea, e lo testimoniano varie affinità linguistiche (ad esempio tra il sanskrito e le altre lingue indoeuropee) e di aspetti religiosi - sociali - mitologici. Che poi l'origine di queste popolazioni sia nell'area delle steppe pontico caspiche, in quella dell'altopiano armeno o anatolico, nella zona balcanica o in India (out-of India theory) è questione di dibattito, anche se la prevalenza è verso l'area pontico caspica, in misura minore armenia o balcanica o anatolica. Out of India è più che altro una ipotesi nata a livello di nazionalismo Hindù, per motivi ideologici.
     
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    Circa la presunta conquista dell'India settentrionale da parte degli ārya, si tratta di una tesi che dal punto di vista storiografico ha avuto fortuna ed è circolata ampiamente fino a tempi recenti, trovando sostenitori anche autorevoli, ma è discutibile. Poiché, in effetti, lo strato più antico del Veda, il Ṛgveda, non fa menzione neppure una volta di una terra originaria, diversa dall'India, dalla quale gli ārya sarebbero provenuti; sono invece presenti riferimenti all'India nord-occidentale, in particolare all'area corrispondente all'odierno Pakistan, dove probabilmente lo stesso Ṛgveda fu composto. È quanto meno possibile, dunque, che gli ārya fossero autoctoni.

    Per quanto riguarda la lingua, il vedico è senz'altro una lingua indoeuropea: su questo non penso ci siano dubbi, anche perché presenta molte affinità con l'avestico, anch'esso lingua indoeuropea, o meglio, indoiranica, con una morfologia verbale che è pressoché la stessa, peraltro con delle variazioni fonetiche.

    Talvolta, per dare un punto d'appoggio alla tesi degli ārya come invasori esterni (dall'Asia centrale?), si è fatto riferimento a quei pochi passi del Ṛgveda (es. II 12) in cui si fa menzione dei dāsa/dasyu, le popolazioni autoctone dell'India del nord, che sarebbero state sottomesse dagli ārya grazie alla loro superiorità tecnologica, specialmente grazie all'uso del carro da guerra dotato di ruote a raggi e trainato dal cavallo. Nell'inno che ho citato, è il dio Indra a essere presentato come conquistatore dei dasyu, di supposta lingua dravidica. Si è creduto che, poiché ancora oggi nell'India meridionale si parlano lingue dravidiche, gli ārya, pervenuti nella piana dell'Indo in un periodo difficile da identificare con esattezza, ivi abbiano incontrato gli autoctoni di lingua dravidica, conquistati militarmente, spostati a forza a sud e relegati alla classe sociale più bassa: quella degli śūdra. Ma a supporto di questa tesi non esistono prove archeologiche, e i riferimenti testuali sono scarsissimi. Quando poi, a inizio Novecento, fu scoperta la civiltà della valle dell'Indo, c'è chi suppose che i dāsa conquistati dagli ārya fossero i vallindi, ma ancora una volta non esistono schiaccianti prove archeologiche di ripetute invasioni.

    Grazie della stimolante discussione. Sarebbe bello se anche Parvatah offrisse il suo contributo di indologo. Io conosco un po' gli argomenti di cui sopra per averli studiati autonomamente e all'università, ma onestamente non sono il mio ambito di specializzazione.
     
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    Il sanskrito è chiaramente indoeuropeo, la mitologia e la religione più antica ha molte affinità con altre mitologie e politeismi di popoli parlanti lingue indoeuropee, probabile quindi che gli Ariya (e/o le altre popolazioni affini) fossero di origine indoeuropea.

    Probabilmente i Rg Veda sono stati composti in India, post migrazione, anche perchè già ai tempi, i nomi di alcune tribù considerate di cultura sanskrita - vedica - ariyana, erano di origine non sanskrita, forse dravidica, e questo denotava già una certa assimilazione di popolazioni indoeuropee e locali.
    Solitamente si auto definivano ariyan coloro che parlavano lingue indo-ariane (sanskrito ad esempio) e che aderivano a norme sociali e culturali vediche (rituali, credenza in determinate divinità, etc...) e quando era in uso questo endonimo le popolazioni indoeuropee stanziate in India si erano già almeno in parte mescolate con le popolazioni locali.

    Siamo nel campo del possibile / probabile, non delle certezze.
     
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    La discussione però è sul corpo di arcobaleno e affini, se volete potete aprire una discussione su quest'altro tema ma direi di non continuarla qui
     
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    Hai ragione, meglio rimettersi sui binari del tema di questa discussione. Allora, per tornare in topic, riporto un ulteriore testo canonico in cui si parla di luce: il Saṅgīti-sutta, che sviluppa una serie di argomenti disponendoli in una progressione numerica, da uno a dieci. Ivi, nella quarta sezione, parlando del metodo che porta ad acquisire personalmente conoscenza e visione (ñāṇadassanapaṭilābha), si parla di "percezione della luce" (ālokasaññā), il che avviene concentrandosi sulla "percezione della luce diurna" (divāsaññā), senza badare al fatto che sia giorno o notte. In tal modo, la mente (citta) diventa sappabhāsa, tutta luminosa. Analogamente, nel Brahmanimantanika-sutta si accenna ad una "coscienza illimitata" (ananta) che è sabbatopabha, interamente luminosa. Lo stesso è detto, misteriosamente, alla fine del Kevaṭṭa-sutta.

    Io, francamente, non capisco se questi passi sulla rilucenza della mente siano da intendere alla lettera o se invece siano metafore per riferirsi a una mente ben purificata. Nelle tradizioni successive, che tu, Mjölnir, conosci meglio di me, come sono interpretati? Per quanto riguarda la tradizione scolastica pāli, nell'Atthasālinī (140) la chiarezza della mente viene fatta corrispondere al continuum mentale subliminale (bhavaṅga); ma questa è un'interpretazione tarda, tant'è vero che lo stesso concetto di bhavaṅga è estraneo ai Nikāya. Si trova per la prima volta nel Paṭṭhāna e poi, più frequentemente, nei commenti dell'Abhidhamma.

    Se rimaniamo ai sutta, la questione della natura della luminosità della mente, se letterale o metaforica, rimane aperta. La domanda che si pone è: la mente è luminosa di per sé o tale risulta dopo quel paziente lavorio interiore che si attua attraverso determinate pratiche contemplative volte a purificarla dagli inquinanti? Da una parte, si potrebbe sostenere che la luminosità del citta sia intriseca a questo, come sua caratteristica innata che diviene del tutto manifesta quando vengono meno le contaminazioni, dette non a caso "avventizie" (āgantuka), secondo la traduzione di Bhikkhu Bodhi; dall'altra, si potrebbe ritenere che la mente, più o meno a lungo, divenga luminosa, e non già lo sia di per se stessa, quando le contaminazioni vengono meno grazie a specifici training meditativi, come avviene nei jhāna.

    Personalmente, propendo verso quest'ultima interpretazione, supportato, in ciò, dalla formula che descrive il quarto jhāna, quando viene detto che chi vi si trova dimora pervadendo (pharitvā) l'intero corpo con una mente pura (parisuddha) e luminosa (pariyodāta). In questa formula, sembrerebbe che la mente siffatta sia il risultato della pratica, del samādhi, dello sviluppo della concentrazione fino al livello del quarto jhāna.

    Edited by Fantasia - 6/2/2024, 07:30
     
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    Io, francamente, non capisco se questi passi sulla rilucenza della mente siano da intendere alla lettera o se invece siano metafore per riferirsi a una mente ben purificata.

    premettendo e precisando che non so in pratica nulla di buddhismo tibetano, mi permetto di intervenire unicamente e limitamente in merito alle tue parole che ho quotato e al sutta indagato nel tuo topic.
    sutta di cui peraltro riporto una nota traduzione online a vantaggio di chi avesse difficolta' con la lingua inglese:
    www.canonepali.net/udana-8-9-dabba-sutta-dabba-mallaputta-1/
    ricordo che anni fa partecipai ad una sorta di convegno riguardante il canone - ma non solo - a cui intervennero sia studiosi buddhisti sia appunto monaci theravada.
    ebbene, a diverse domande che gli furono poste a proposito dello stesso dilemma che piu' o meno ti poni tu, tanto gli uni quanto gli altri risposero che le parti in cui sono presenti episodi soprannaturali, per così dire, andassero lette non letteralmente ma in chiave appunto metaforica o altrimenti simbolica. ed in particolare le parti piu' poetiche come appunto l'udana da te citato.
    ciao Fantasia :)
     
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    CITAZIONE (eizo @ 1/2/2024, 16:55) 
    ebbene, a diverse domande che gli furono poste a proposito dello stesso dilemma che piu' o meno ti poni tu, tanto gli uni quanto gli altri risposero che le parti in cui sono presenti episodi soprannaturali, per così dire, andassero lette non letteralmente ma in chiave appunto metaforica o altrimenti simbolica. ed in particolare le parti piu' poetiche come appunto l'udana da te citato.

    Nel caso specifico della mente luminosa, c'è tuttavia da dire, contro la lettura semplicisticamente "simbolica", che tradizioni successive intesero questo insegnamento, incarnato nei corpi vivi di praticanti zelanti, come rimandante a una luce reale.

    Quanto invece ai poteri sopra-normali, come volare, penso alle scuole tantriche che avevano di mira l'ottenimento delle "perfezioni" (siddhi), tanto che in questo ambito il realizzato viene chiamato "perfetto" (siddha).

    Secondo l'insegnamento buddhista conservato nei sutta, le iddhi non sono lo scopo finale e imprescindibile, tuttavia vedere i passi che ne fanno menzione come meramente simbolici mi sembra far loro "violenza" ermeneutica in favore di una lettura moderna/modernista. Prendi un testo come il Sāmaññaphala-sutta, dove tra i "frutti della vita ascetica", sviluppabili a partire da una mente ben lavorata nel quarto jhāna, sono menzionati il corpo mentale (manomaya kāya), i poteri sopra-normali (iddhi), l'elemento dell'orecchio divino (dibbasota), la comprensione dello stato mentale altrui (cetopariya), il ricordo delle vite passate (pubbenivāsānussati) e l'occhio divino (dibbacakkhu). Possibile che sia tutto "metaforico"? Oltretutto, queste non sono cose ritenute possibili solo in ambito buddhista, poiché, per fare soltanto un esempio, se ne parla anche nello Yogasūtra, nella terza sezione dell'opera (vibhūti-pāda).

    Infine, è vero che l'episodio del prodigioso spegnimento finale di Dabba è presentato in versi e che non possiamo aspettarci da un brano in poesia esattezza "scientifica", però, pur sforzandomi, non vedo come si possa interpretare questo evento in modo metaforico, tanto più che negli sviluppi successivi, nel mondo tibetano, come da risposta di Mjölnir, il corpo di luce non è stato inteso come un simbolo letterario, ma come una vera e propria realtà. Questo, almeno, secondo la prospettiva che gli antropologi culturali chiamerebbero "emica".

    Con questo davvero concludo: se riteniamo che alcune parti, specie in poesia, siano da considerare come "simboliche", dobbiamo prenderci la briga di stabilire in base a quale criterio distinguiamo il simbolico dal non simbolico. Pena il cadere nell'arbitrarietà, per cui ciò che per uno è simbolico, per un altro è reale. Il rischio è anche quello, come dicevo, di piegare i testi antichi verso la nostra sensibilità contemporanea, che fatica a credere a cose come la chiarudienza. Me compreso, s'intende: sono scettico, non nell'accezione che primariamente ha oggi questo termine, ma in quella filosofica: non avendo elementi a sufficienza per pronunciarmi a favore o contro, continuo la mia "ricerca" (skepsis) e nel mentre sospendo il giudizio su quelle questioni rispetto alle quali, appunto, non ho abbastanza elementi per prendere posizione.

    Parvatah, tu cosa pensi di tutto ciò? E tu, swami chandraramabubu sfigananda? E tu, eizo? :D
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 1/2/2024, 18:50) 
    CITAZIONE (eizo @ 1/2/2024, 16:55) 
    ebbene, a diverse domande che gli furono poste a proposito dello stesso dilemma che piu' o meno ti poni tu, tanto gli uni quanto gli altri risposero che le parti in cui sono presenti episodi soprannaturali, per così dire, andassero lette non letteralmente ma in chiave appunto metaforica o altrimenti simbolica. ed in particolare le parti piu' poetiche come appunto l'udana da te citato.

    Nel caso specifico della mente luminosa, c'è tuttavia da dire, contro la lettura semplicisticamente "simbolica", che tradizioni successive intesero questo insegnamento, incarnato nei corpi vivi di praticanti zelanti, come rimandante a una luce reale.

    Quanto invece ai poteri sopra-normali, come volare, penso alle scuole tantriche che avevano di mira l'ottenimento delle "perfezioni" (siddhi), tanto che in questo ambito il realizzato viene chiamato "perfetto" (siddha).

    Secondo l'insegnamento buddhista conservato nei sutta, le iddhi non sono lo scopo finale e imprescindibile, tuttavia vedere i passi che ne fanno menzione come meramente simbolici mi sembra far loro "violenza" ermeneutica in favore di una lettura moderna/modernista. Prendi un testo come il Sāmaññaphala-sutta, dove tra i "frutti della vita ascetica", sviluppabili a partire da una mente ben lavorata nel quarto jhāna, sono menzionati il corpo mentale (manomaya kāya), i poteri sopra-normali (iddhi), l'elemento dell'orecchio divino (dibbasota), la comprensione dello stato mentale altrui (cetopariya), il ricordo delle vite passate (pubbenivāsānussati) e l'occhio divino (dibbacakkhu). Possibile che sia tutto "metaforico"? Oltretutto, queste non sono cose ritenute possibili solo in ambito buddhista, poiché, per fare soltanto un esempio, se ne parla anche nello Yogasūtra, nella terza sezione dell'opera (vibhūti-pāda).

    Infine, è vero che l'episodio del prodigioso spegnimento finale di Dabba è presentato in versi e che non possiamo aspettarci da un brano in poesia esattezza "scientifica", però, pur sforzandomi, non vedo come si possa interpretare questo evento in modo metaforico, tanto più che negli sviluppi successivi, nel mondo tibetano, come da risposta di Mjölnir, il corpo di luce non è stato inteso come un simbolo letterario, ma come una vera e propria realtà. Questo, almeno, secondo la prospettiva che gli antropologi culturali chiamerebbero "emica".

    Con questo davvero concludo: se riteniamo che alcune parti, specie in poesia, siano da considerare come "simboliche", dobbiamo prenderci la briga di stabilire in base a quale criterio distinguiamo il simbolico dal non simbolico. Pena il cadere nell'arbitrarietà, per cui ciò che per uno è simbolico, per un altro è reale. Il rischio è anche quello, come dicevo, di piegare i testi antichi verso la nostra sensibilità contemporanea, che fatica a credere a cose come la chiarudienza. Me compreso, s'intende: sono scettico, non nell'accezione che primariamente ha oggi questo termine, ma in quella filosofica: non avendo elementi a sufficienza per pronunciarmi a favore o contro, continuo la mia "ricerca" (skepsis) e nel mentre sospendo il giudizio su quelle questioni rispetto alle quali, appunto, non ho abbastanza elementi per prendere posizione.

    Parvatah, tu cosa pensi di tutto ciò? E tu, swami chandraramabubu sfigananda? E tu, eizo? :D

    che dirti... sospendo anch'io a priori qualsiasi tipo di giudizio personale sulla questione.
    del resto non sono ne' uno studioso, ne' tantomeno un monaco buddhista, appunto.
    ti ho semplicemente riferito quello che "così ho udito" :lol: da chi oggi il buddhismo - o almeno uno dei tanti buddhismi esistenti, ad essere precisi - non solo lo studia ma anche lo pratica.
    tutto qui :)
     
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    Tanto per cambiare il mio punto di vista è a mezza strada. Posso solo portare due elementi del tutto sconnessi; come mio solito tendo a notare i dettagli e spesso a posteriori mi sbaglio avendogli dato un'importanza che non avevano.

    Come sempre la differenza di tradizione Thera vs. Mahayana tibetano rende ancora meno interessante quel che posso dire.

    1) Forse avrò raccontato che tanti anni fa corressi le bozze per un libro di Dharma e dato che il testo era in condizioni davvero povere ("Sciantideva", "lo stato di Buddha" e dal contesto era appunto chiaro che non era nome proprio, etc.) aggiunsi una serie di note dove mi pareva che fossero richieste. Il testo menziona la nota storia di, indovinate, Shàntideva che venne preso per i fondelli dai monaci, messo in imbarazzo e per dimostrargli che avevano proprio toppato alla grande si sollevò in aria. Incautamente nella nota la considerai una metafora o comunque qualcosa che richiedeva un'interpretazione. Mal me ne incolse, perché come ovvio il testo venne ri-tradotto in tibetano per il controllo del maestro e il commento fu che l'episodio era da prendersi letteralmente e ovviamente cambiai la nota. Lo chiesi per conferma, presente il maestro e disse che l'episodio non richiede interpretazione.

    2) Nei testi di filosofia si cita ogni tanto "il circo magico", per illustrare la differenza tra Svatànrtica e Prasànghika (apprezzate l'ortografia e la lunghezza delle vocali nel posto sbagliato, ora che mi sono calato nel "mood" dei volonterosi sbobinatori a cui, seriamente, va un'ammirazione sconfinata da parte mia che non sono paziente). E' molto interessante ai fini della distinzione tra le due branchie (oops, ormai sono contagiato) ma in questo caso potrebbe interessare per un altro motivo. Ultima cosa, ha tutta l'aria di essere materiale indiano dato che parla di far apparire un elefante e l'ho trovata citata più di una volta in contesti diversi. Ordunque, l'apparizione di qualcosa a opera di un mago non può avvenire ex nihilo. Deve esserci un supporto materiale su cui l'incantesimo possa agire come agisce anche sulla mente degli astanti. Non si può far apparire qualcosa senza un suppporto fisico. Dall'interdipendenza tra incantesimo, la pietra, che è quella citata nel circo magico e la mente degli astanti, può apparire quello che il mago desidera. Ancora più interessante, se una volta recitata la formula magica arriva qualcuno, questi non vede l'elefante ma la pietra perché non ha sentito l'incantesimo. Ci aspettiamo che un mago materializzi "realmente" qualcosa, per quanto possa essere una specie di ologramma o simili, e quindi chi arriva a metà spettacolo veda l'elefante come i puntuali, ma in questo caso no. Servono tutti gli elementi.

    3) C'è anche il karma. In un manuale del bravo bodhisattva (in realtà è "la tradizione tibetana dello sviluppo mentale") c'è un passaggio in cui si suggerisce di creare per un essere senziente la visione di un inferno, facendoglielo proprio apparire davanti e se ci sono le condizioni karmiche. Secondo la vulgata tibetana siamo circondati da bodhisattva che spontaneamente creano visioni di diverso tipo a scopo didattico; non le vediamo perché il nostro karma è troppo oscurato per permetterci di vederle. E' un filone interpretativo che trovo interessante e si lega senza forzature ai due punti precedenti. In fondo è esperienza di tutti i giorni che la persona intelligente ha idee che a posteriori sono stupide ma gli hanno procurato fama e denaro. Queste persone possono vedere quello che altri non vedono. Non trovo impossibile che siamo tutti immersi una specie di circo magico globale in cui alcuni possono vedere certe cose e altri no.

    Non so che quadro trarne. Della nota corretta sono stato non solo testimone ma anche coinvolto direttamente e la ricordo molto bene. Elefanti dopo la recitazione di una formula magica non ne ho mai visti ma il circo magico si può trovare verso la fine del capolavoro "appearance and reality" di G. Newland, potreste constatare che l'ho riferito correttamente.

    Non posso essere sicuro come era il maestro che Shantideva potesse alzarsi in volo ma se il meccanismo del circo magico è accreditato nel mondo indobuddhista non mi sento nemmeno di escludere che qualcosa possa succedere realmente, in senso reale se non altro perché cosa sia reale è tutto da capire e si apre un mondo. Mi sa che anche stavolta si possa chiamare in causa la via di mezzo anche se non so proprio come descriverei il quadro di riferimento delle siddhi.

    Sul lato delle siddhi non-fisiche ho pochi dubbi. Ho la sensazione che ogni tanto i maestri con noncuranza mostrino che sono reali e per quanto posso dire, almeno un episodio per me inspiegabile altrimenti e altri 2-3 difficilmente spiegabili altrimenti, mi hanno riguardato direttamente. Lo dico perché chiunque stia abbastanza a contatto con un centro con lama di alto livello lo ha visto qualche volta e non mi sento certo uno degli eletti a cui sono state mostrate; tutt'altro. Qui è, credo, semplice; con ogni probabilità si tratta di leggi fisiche che non conosciamo ancora ma ho fiducia che verranno scoperte (e spero non usate male dalla nostra perfida specie).

    Ovviamente non mi prendo sul serio io per primo. Non sono in grado né mi sento di assentire a questo tipo di cose; penso non sia possibile escludere un elemento "fortemente ermeneutico" anche se non so quale e come, per salvare i fenomeni.

    Edited by swami chandraramabubu sfigananda - 2/1/2024, 08:49 PM
     
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    tanto gli uni quanto gli altri risposero che le parti in cui sono presenti episodi soprannaturali, per così dire, andassero lette non letteralmente ma in chiave appunto metaforica o altrimenti simbolica. ed in particolare le parti piu' poetiche come appunto l'udana da te citato.
    ciao Fantasia :)

    Non mi stupisce, è una tipica interpretazione occidentale. Quando però ho provato a parlare con monaci o lama orientali provenienti da realtà decisamente tradizionali (alcuni anche da aree decisamente “arcaiche”) affermavano che erano da intendersi letteralmente come manifestazione di siddhi / iddhi.

    Chi avrà ragione?

    Edited by Mjölnir - 1/2/2024, 23:38
     
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    CITAZIONE (eizo @ 1/2/2024, 16:55) 
    tanto gli uni quanto gli altri risposero che le parti in cui sono presenti episodi soprannaturali, per così dire, andassero lette non letteralmente ma in chiave appunto metaforica o altrimenti simbolica. ed in particolare le parti piu' poetiche come appunto l'udana da te citato.
    ciao Fantasia :)

    Mi ritrovo, è una interpretazione occidentale. Quando però ho provato a parlare con monaci o lama orientali provenienti da realtà decisamente tradizionali (alcuni anche da aree decisamente “arcaiche”) affermavano che erano da intendersi letteralmente come manifestazione di siddhi / iddhi.

    Chi avrà ragione?

    probabile anche che abbiano torto entrambi.
    del resto solo il buon shakyamuni sa cosa successe davvero quel giorno nel boschetto di Jeta al venerabile Mallaputta. volo' o non volo' prendendo fuoco nello spazio? agli studiosi, ai monaci e ai lama posteri occidentaliorientali l'ardua sentenza! :lol:
    ciao Mjolnir :)
     
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    Per i buddhisti orientali credo sia la normalità credere che, ad esempio, Milarepa volava per davvero.
    Esattamente come per i cristiani occidentali credere che questo o quel santo del passato volava, o si manifestava contemporaneamente in due punti differenti.
    Inoltre sembra che chi ha queste capacità, non vuole assolutamente farsene notare dagli altri, tende a nasconderle, a negare, le mostra a qualcuno (evidentemente gioca un ruolo il karma personale) solo quando ritiene che sia davvero necessario.
    Per un fan come me del "solo mente" :D credo si aprano scenari interessanti in tale prospettiva.
    Vabbeh ho detto due cose per iscrivermi alla discussione :lol:
     
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    QUOTE (Obi_Wan_Kenobi @ 2/1/2024, 10:57 PM) 
    Per un fan come me del "solo mente" :D credo si aprano scenari interessanti in tale prospettiva.
    Vabbeh ho detto due cose per iscrivermi alla discussione :lol:

    Quando ho capito che lo yogachara è molto lontano dall'idealismo sono cascato dalla sedia, ci ho messo un po' per metabolizzarlo. A mia discolpa posso gettare tutta la colpa (vado matto per incolpare e seminare zizzania :D ) sul fatto che la maggior parte dei testi generali di Buddhismo in cui mi sono imbattuto presentano uno yogachara fortemente venato di idealismo e, peggio, come se fosse "la" filosofia-esperienza nel Buddhismo. So che sono cose che sai e le virgolette erano lì apposta ma mi piace agganciarmi ai post e divagare.
     
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68 replies since 28/1/2024, 16:28   1686 views
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