Corpo di arcobaleno: antecedenti nel Canone pāli?

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    CITAZIONE (Obi_Wan_Kenobi @ 1/2/2024, 22:57) 
    Per i buddhisti orientali credo sia la normalità credere che, ad esempio, Milarepa volava per davvero.

    Riprendendo l'argomento, cui potremmo dare il nome di "iddhi: realtà o metafora?", vorrei ricordare il caso di una nota maestra asiatica di tradizione pāli, Dipa Ma, che, seguendo le istruzioni di pratica di tipo samatha sui kasiṇa contenute nel Visuddhimagga, sarebbe riuscita ad acquisire le iddhi. Quindi, ammesso pure che in certi casi possa trattarsi di metafore, esistono d'altra parte casi in cui invece si tratta di cose concrete (nella visione "emica", quanto meno). E sì, per rispondere a te, è vero: ancora oggi nei paesi di tradizione buddhista esistono numerose persone, sia laici che monaci, che credono ai poteri sopra-normali, di cui sarebbero dotati i praticanti avanzati.

    In Birmania c'è una corrente esoterica di matrice theravāda, che tuttavia costituisce una curiosa sintesi di tradizioni differenti: buddhismo, alchimia indiana, taoismo e pratiche locali. Ebbene, per gli aderenti a questa corrente, chiamata weizza (dal pāli vijjā, "conoscenza"), perlopiù laici, è particolarmente importante il raggiungimento di obiettivi mondani, soprattutto il prolungamento il più possibile della propria esistenza, tramite il conseguimento di un corpo invulnerabile, allo scopo di essere presenti alla venuta dell'atteso e vaticinato Buddha Metteyya (sanscrito: Maitreya).

    Anche - ed ecco l'aggancio al nostro discorso - l'acquisizione di poteri sopra-normali è importante, al fine di intervenire sul mondo naturale a beneficio del Sāsana del Buddha e, attraverso pratiche esorcistiche e incantesimi, per curare, o quanto meno ridurre, disturbi dovuti alla (presunta) azione ostile di agenti "soprannaturali". Chi esercita questi poteri è sostanzialmente un mago-taumaturgo semi-divino (tipo Empedocle, per fare un nome appartenente alla nostra tradizione filosofica). Nella loro auto-rappresentazione, costoro intendono se stessi come difensori del Dhamma, e curiosamente rinunciano di proposito alla realizzazione del nibbāna per non lasciare il Sāsana sguarnito. Per questo motivo, evitano la pratica di vipassanā, appunto per il timore di realizzare il nibbāna, privando il mondo buddhista della loro protezione magica.

    Questo per dire che ancora ai giorni nostri, nella fattispecie in Birmania, sono vivi movimenti che danno importanza alle iddhi, che in questi casi non possono essere lette metaforicamente, ma come abilità che noi forse chiameremmo "magiche": rammemorazione delle vite passate, chiarudienza, lettura della mente, camminare sull'acqua etc. - tutte cose che già il canone menziona come acquisizioni possibili attraverso specifici training meditativi.
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 3/2/2024, 08:30) 
    Questo per dire che ancora ai giorni nostri, nella fattispecie in Birmania, sono vivi movimenti che danno importanza alle iddhi, che in questi casi non possono essere lette metaforicamente, ma come abilità che noi forse chiameremmo "magiche": rammemorazione delle vite passate, chiarudienza, lettura della mente, camminare sull'acqua etc. - tutte cose che già il canone menziona come acquisizioni possibili attraverso specifici training meditativi.

    Sicuramente questo atteggiamento è più diffuso nei paesi a tradizione buddhista in Oriente, ma ci sono gruppi (meno) con questa impostazione anche in Occidente.
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 3/2/2024, 08:30) 
    In Birmania c'è una corrente esoterica di matrice theravāda, che tuttavia costituisce una curiosa sintesi di tradizioni differenti: buddhismo, alchimia indiana, taoismo e pratiche locali. Ebbene, per gli aderenti a questa corrente, chiamata weizza (dal pāli vijjā, "conoscenza"), perlopiù laici, è particolarmente importante il raggiungimento di obiettivi mondani, soprattutto il prolungamento il più possibile della propria esistenza, tramite il conseguimento di un corpo invulnerabile, allo scopo di essere presenti alla venuta dell'atteso e vaticinato Buddha Metteyya (sanscrito: Maitreya).

    Vi è qualcosa di simile anche in Thailandia, Laos e Cambodia.

    Raccomando sul tema di informarsi in merito alla tradizione Yogavacara ed ai relativi testi di meditazione.
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 3/2/2024, 07:32) 
    Senz'altro! Tu in quale tradizione pratichi?

    Vajrayana e altro.
     
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    Mi sono tornati in mente altri riferimenti alla luce.

    Rispetto alla pratica, di tipo samatha, basata sull'āloka-kasiṇa, il Visuddhimagga (V, 23) dice che il paṭibhāga-nimitta si manifesta come una massa luminosa chiara.

    Nel Punabbasu-sutta, il Buddha è detto pabhaṅkara, "portatore di luce", in particolare per dèi ed esseri umani (devamanussā) smarriti. Chiaramente, in questo caso si tratta di una metafora.

    Nell'Upakkilesa-sutta, il Buddha parla delle cinque impurità (upakkilesa) dell'oro, a causa delle quali questo non è malleabile (mudu), non è lavorabile (kammaniya), non è luminoso (pabhassara); ovvero, ferro, rame, stagno, piombo e argento. Allo stesso modo, esistono cinque impurità della mente (citta) che, negli stessi termini di cui sopra, le impediscono di essere rettamente concentrata allo scopo di distruggere le contaminazioni (sammā samādhiyati āsavānaṁ khayāya); ovvero, desiderio sensuale (kāmacchanda), malevolenza (vyāpāda), pigrizia e torpore (thīnamiddha), agitazione e ansia (uddhaccakukkucca), e dubbio (vicikicchā). Possiamo concludere che, quando invece il citta sia libero da questi upakkilesa, acquisisca le caratteristiche contrarie, cioè di essere malleabile, lavorabile, luminoso e adeguatamente concentrato per porre fine agli āsava.

    Nell'Ayoguḷa-sutta, parlando con Ānanda, il Buddha, riferendosi a se stesso come Tathāgata, dice di immergere il corpo nella mente e la mente nel corpo, e che egli "dimora" (viharati, verbo spesso usato per indicare la permanenza in uno stato meditativo) in una percezione di beatitudine (sukhasaññā) e di leggerezza (lahusaññā) riguardo al corpo. In questa circostanza, il suo corpo diviene più vivace (lahutara), più malleabile (mudutara), più lavorabile (kammaniyatara) e più luminoso (pabhassaratara), nonché capace di sollevarsi facilmente da terra ed esercitare i poteri psichici (iddhi).

    Sulla leggerezza del corpo in particolari stati meditativi offre testimonianza anche la Khitakattheragāthā, dove il corpo, ricolmo di estasi e felicità (pītisukha), elementi presenti in certi jhāna, è detto "leggero" (lahuka), e dà l'impressione di fluttuare, come cotone nel vento.

    Edited by Fantasia - 8/2/2024, 08:32
     
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    Per rimanere in tema di luce, luminosità, corpi radianti etc., aggiungo che nei sutta è presente qualche riferimento alla luminosità delle facoltà sensorie e del volto. Mi viene in mente, in proposito, il Nakulapitu-sutta, dove l'anziano e malato capofamiglia omonimo riceve un insegnamento da parte del Buddha che, pur nella sua concisione, è bastato a renderne le facoltà (indriya) chiare (vippasanna) e il volto puro (parisuddha) e luminoso (pariyodāta).

    Un ulteriore riferimento alla straordinaria lucentezza degli indriya si trova nel Mahāvedalla-sutta, quando si parla di colui che ha raggiunto il saññāvedayitanirodha: anche in questo stato gli indriya sono chiarissimi, e per esprimere questa loro caratteristica si uso esattamente lo stesso termine: vippasanna.

    Nel Godhika-sutta Māra si rivolge al Buddha in versi, magnificandolo e attribuendogli l'epiteto di jutindhara, "luminoso", "splendente", "brillante", "portatore di luce", e prima ancora ne dice essere rilucente di potere (iddhi) e gloria/fama (yasas).

    C'è, inoltre, un altro riferimento alla luminosità nell'epiteto del Buddha Aṅgīrasa, che Bhikkhu Ñāṇamoli traduce come "colui dalle membra radiose", "come la sfera del sole sfolgorante nel cielo", dice una strofe del Visuddhimagga (XII, 60). Tra parentesi: c'è chi ha supposto che Aṅgīrasa non fosse semplicemente un epiteto del Buddha, ma addirittura il suo nome proprio. Infatti, l'Āṭānāṭiya-sutta, dopo aver menzionato i nomi dei Buddha del passato, ricorda quello di Gotama appunto come Aṅgīrasa. Ciò aprirebbe a considerazioni interessanti sulla relazione tra il Buddha storico e il mondo brahmanico, poiché sia Gotama che Aṅgīrasa vi sono connessi: Gotama è il nome di uno dei veggenti vedici (ṛṣi) e Aṅgiras è il cantore degli inni del IX maṇḍala del Ṛgveda. Sono nomi squisitamente brahmanici ed è dunque supponibile che il Buddha stesso potesse essere un brahmano, e non un khattiya/kṣatriya, come la tradizione vuole. È quanto meno strano che un nobile avesse nomi così evidentemente brahmanici; d'altra parte, nell'India del Buddha, ovvero l'India nord-orientale del V a.C. circa, non sappiamo con certezza ed esattezza quanto il brahmanesimo fosse diffuso.

    Infine, mi vengono in mente le strofe finali del bel Pāraṅgama-sutta, dove si dice che i luminosi (jutimant), con le contaminazioni distrutte (khīṇāsava), sono del tutto estinti (parinibbuta) nel mondo.

    Edited by Fantasia - 6/2/2024, 17:12
     
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    Non dimentichiamo la forte parentela col mondo iranico. Il fotismo è sicuramente la sua caratteristica principale e potrebbe aver influenzato in parte l'universo buddhista. Beninteso è probabile sia una sorta di elemento condiviso da tutti gli esseri umani, anche le nostre protoscimmie credo preferissero la luce (ovvero poter guardare, difendersi, fare cose) al buio pesto in cui può arrivare una minaccia improvvisa da qualsiasi parte. Però chi sa, che il mondo iranico e quello indiano vedico abbiano forti legami è un fatto e non un'ipotesi.
     
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    Credo che il riferimento alla luce sia una costante nella letteratura religiosa, specie in quella mistica. Innumerevoli sono gli esempi che si potrebbero fare. Andando in ordine sparso, nella tradizione cristiana possiamo pensare all'episodio della conversione di Paolo, quando fu abbacinato dalla luce divina; al canto trentatreesimo del Paradiso della Comedia di Dante ("O luce etterna che sola in te sidi"...); ai "mondi [ultraterreni] della Luce" dei mandei; al credo niceno, ancora oggi recitato: "Luce da Luce"; al "fiat lux" di Genesi; e via dicendo. Lungo i secoli e nei più vari luoghi, abbondano i riferimenti alla luce.
     
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    Non dimentichiamo la forte parentela col mondo iranico. Il fotismo è sicuramente la sua caratteristica principale e potrebbe aver influenzato in parte l'universo buddhista. Beninteso è probabile sia una sorta di elemento condiviso da tutti gli esseri umani, anche le nostre protoscimmie credo preferissero la luce (ovvero poter guardare, difendersi, fare cose) al buio pesto in cui può arrivare una minaccia improvvisa da qualsiasi parte. Però chi sa, che il mondo iranico e quello indiano vedico abbiano forti legami è un fatto e non un'ipotesi.

    hanno detto:"da ogni parte c'è la luce di Dio".
    ma gridano gli uomini tutti: "dov'è quella luce?"
    l'ignaro guarda da ogni parte, a destra, a sinistra;
    ma dice una voce:
    "guarda soltanto,senza destra e sinistra!"


    (jalal ud din rumi)


    questi stolti eruditi, questi ladri e borsaioli:
    usano ciò che hanno imparato per brigantaggio!
    ascoltatemi, signori del linguaggio:
    è meglio colmare il vostro cuore di luce
    piuttosto che di centomila parole;
    quando tacete, siete l'eloquenza stessa;
    quando aprite bocca, farfugliate solo bugie!"

    (hakim sanai)

    ho modificato scordando di quotare il buon swami, chiedo venia!

    Edited by eizo - 6/2/2024, 12:57
     
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    Condivido qui una breve riflessione già proposta qualche giorno fa in tagboard. Ovviamente, è in topic.

    Nel canone è interessante il "contrasto" tra il carattere lucifero della sapienza (paññā), detta non a caso proprio "lampada" (paññāpajjota) nel Pajjota-sutta (AN 4.145), e la metafora della liberazione come "spegnimento" di quella sorgente luminosa che è il fuoco (aggi), cui sono assimilati avidità (rāga), avversione (dosa) e confusione (moha) nel Saṅgīti-sutta.

    Non per niente, il liberato è detto "raffreddato" (sītibhūta) nel Dhammapada (418) e nel Suttanipāta (648).

    La liberazione (vimokkha), in particolare, è paragonata esplicitamente allo spegnimento di una lampada (pajjotasseva nibbānaṃ) nei versi terminali del Saṃkhittabala-sutta e del Dutiyasikkhattaya-sutta. Anche nel Ratana-sutta, contenuto nel Suttanipāta, torna l’analogia dell’estinzione dei saggi con quella di una lampada (nibbanti dhīrā yathāyaṃ padīpo). Qui il termine per "lampada" non è esattamente pajjota, ma un suo sinonimo. Nel Mahāparinibbāna-sutta, dopo l’estinzione completa del Buddha, Anuruddha ne paragona la liberazione mentale, di nuovo, allo spegnimento di una lampada.

    Lampada che illumina da un lato, suo spegnimento dall'altro: liberazione in vita, liberazione finale.
     
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    Eccomi, di nuovo.

    Nel sutta di Vaṅgīsa (Suttanipāta 2.12), i saggi (dhīra) vengono detti "portatori/creatori di luce" (pajjotakara). Il contesto è quello del trapasso dell'anziano Nigrodhakappa, maestro di Vaṅgīsa. Questi allora, desideroso di conoscerne la sorte, si reca dal Buddha e gli rivolge versi elogiativi, invitandolo a esperimersi sul destino dell'anziano recentemente scomparso. Nei versi di Vaṅgīsa, ce n'è uno in cui appunto si parla dei saggi come luciferi, in modo particolare il Buddha. Egli, dunque, risponde che Kappāyana ha del tutto attraversato nascita (jāti) e morte (maraṇa). Ha, cioè, raggiunto la totale emancipazione: è andato oltre la sfera della morte (maccudheyya), tanto difficile a superarsi (suduttara).

    Rimanendo all'interno del Suttanipāta (5.19), verso la sua conclusione troviamo ancora riferimenti metaforici alla luce del Buddha. Infatti, Piṅgiya parla del Buddha in termini di dissipatore dell'oscurità (tamanuda), luminoso (jutimant) e portatore di luce (pabhaṅkara).

    Spostiamoci ora ai versi dei monaci anziani (Theragāthā), in particolare alla Kaṅkhārevatattheragāthā, dove la sapienza (paññā) dei Tathāgata è paragonata a un fuoco che, acceso di notte, dà luce (ālokada), rende possibile la visione (cakkhudada) e dissipa il dubbio (kaṅkhanā).

    Nel Visuddhimagga (XXI, 107), troviamo un ulteriore riferimento metaforico alla conoscenza in termini di luce: "Just as a man smothered in darkness longs for light, so too this meditator (yogāvacara) wrapped and enveloped in the darkness of ignorance longs for the light of knowledge (ñāṇāloka) consisting in path development" (traduzione di Bhikkhu Ñāṇamoli).

    Edited by Fantasia - 8/2/2024, 08:56
     
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    c’è chi si risveglia
    dall’inconsapevolezza
    e fa luce nel mondo,
    come la luna
    quando sbuca dalle nuvole


    (dhammapada,172)
     
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    Nell'Atthasālinī (122), Buddhaghosa, parlando della paññā, scrive che essa ha la caratteristica (lakkhaṇa) di illuminare (obhāsana) e comprendere (pajānana); che non c'è illuminazione/luce (obhāsa) pari all’illuminazione/luce della comprensione (paññobhāsa); e che la sua funzione (rasa) è l'illuminazione dell'oggetto (visayobhāsa), come fosse una lampada (padīpa).

    A supporto di ciò, il commentatore cita un passo del Milindapañha, dove si dice che, come quando un uomo introduce una lampada a olio in una casa buia, la lampada disperde le tenebre, produce luce, diffonde splendore e rende visibili gli oggetti, così la paññā, quando sorge, dissipa l'oscurità dell'ignoranza (avijjandhakāra), produce la luce della comprensione (vijjobhāsa), diffonde la luce della conoscenza (ñāṇāloka) e rende chiare le nobili verità. Questo per ribadire che la paññā ha come sua caratteristica il fare luce (obhāsanalakkhaṇa).

    Quello della luce è veramente un tema immenso: come dicevo qualche post fa, si trova in tutte le grandi tradizioni spirituali, da Oriente a Occidente, specialmente quando si entra nel campo della mistica. Alle origini della civiltà indiana, nel Ṛgveda, c'è - per fare un solo esempio tra i molti possibili - un famoso inno al soma in cui parlano uomini entusiasti che, avendo consumato questa sacra bevanda, ritengono di essere diventati immortali e, giustappunto, di aver raggiunto la luce, incontrando gli dèi (ṚV 8.48.3).

    Edited by Fantasia - 9/2/2024, 10:24
     
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    o lungimirante Sole, portatore della Luce, gioia di ogni occhio, possiamo noi vivere per vedere il tuo fulgore glorioso espandersi mentre tu ascendi in alto.

    tu risplendi, e tutte le cose viventi emergono.
    tu scompari, ed esse vanno a riposare.

    riconoscendo la nostra innocenza, o aureo Sole, sorgi: che ogni nostro giorno sia migliore dell'ultimo!


    (rigveda X, 37)
     
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    Credo che il tema stia un poco deviando, ossia stiamo ora discutendo della luce in senso simbolico, metaforico e mistico, e l'enfasi sulla luce è presente sostanzialmente in tutte le religioni, perchè è strettamente connessa alla vita su questo pianeta ed all'esistenza umana, e quindi è sicuramente un elemento simbolico centrale in qualsiasi cultura.

    La questione del corpo di arcobaleno o del corpo di luce, di cui si sono cercati possibili richiami anche nei testi del Canone Pali, è un livello diverso, ossia la luce come elemento e/o obiettivo da raggiungere della pratica. Mi sovvengono anche similitudini con il corpo di gloria della tradizione alchemica e con l'akh egizio.

    Insomma, siamo scivolati dalla pratica alla simbologia comunicativa, che sono due piani operativi diversi.
     
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