Corpo di arcobaleno: antecedenti nel Canone pāli?

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    Nello Dzogchen si parla di "corpo di arcobaleno", ovvero la manifestazione finale della realizzazione spirituale di un praticante avanzato, che si estingue senza lasciare alcun residuo. Ora, nel Paṭhamadabba-sutta (https://suttacentral.net/ud8.9/en/sujato) è possibile vedere un antecedente? È vero, qui non si parla di arcobaleno, però l'idea di fondo è sempre quella di sparire fisicamente, senza lasciare di sé neppure la cenere del proprio corpo deliberatamente combusto. Un altro luogo canonico che si riferisce al prodigioso spegnimento finale di Dabba è il Dutiyadabba-sutta (https://suttacentral.net/ud8.10/en/sujato), che si conclude affermando che di coloro che sono rettamente liberati (sammāvimutta) e che hanno trasceso il flusso della schiavitù del desiderio sensuale (kāmabandhoghatārī), conseguendo l'inconcussa felicità, non è possibile descrivere il destino (gati). Questo perché il nibbāna finale è inconcepibile. Vale lo stesso nello Dzogchen (benché, suppongo, detto in altri termini)?
     
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    Lemure archivista ex fiancheggiatore del Dharma

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    Sapendo che tipo di risposta vorresti (e che vorrei essere al livello di poter dare) non dico niente oltre l'ovvio: sì nello DzogChen si insegnano cose molto simili e non me ne stupisco per motivi ben noti, storici e di fedeltà alla tradizione originaria del canone. Però forse una piccola spigolatura potrebbe essere utile a rintracciare altri passi nel canone a supporto dell'argomento che stai studiando.

    Quando nello dzog.chen si consegue il corpo di arcobaleno, e se ricordo bene, qualcosa di fisico resta. Sicuramente le unghie ma mi pare anche i capelli. Una spiegazione che purtroppo ho solo ascoltato e dubito esista trascrizione della sessione (quindi posso ricordare male, bias cognitivo, etc.) è che l'esistenza del corpo di arcobaleno dipende dal fatto che anche il rupaskandha è fortemente connesso al complesso individuale (bella scoperta direte...) ma alcune parti del corpo sono mera, pura e solo materia. Per questo restano fisicamente dopo che il resto corpo si è dissolto, e il praticante nemmeno potrebbe farle sparire se volesso come fa col resto. Insomma, hanno uno status di "materialità" più radicale e diverso da tutto il resto. Meglio di così non lo ricordo.

    Penso che questo piccolo dettaglio sia una specie di entry point di qualcosa di interessante ma non ne so molto. Non sono mai stato un diligenterrimo discepolo Dzog.Chen e me ne sono occupato poco. Forse, come più probabile, è un dettaglio senza importanza.
     
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    ciao Fantasia e un saluto a tutti, bel topic

    non posso contribuire o aiutare per oggettiva ignoranza. siamo troppo avanti, ma certamente lo trovo un tema che mi affascina

    quando sono venuto a conoscenza del corpo arcobaleno (per altro poco tempo fa) leggendo un libro del Maestro Norbu, riportava un episodio che m'ha fatto quasi cascare dalla sedia

    si trattava di un pastore o un contadino in Tibet, non ricordo ma certamente non un monaco, che nessuno avrebbe mai lontanamente immaginato, il quale in punto di morte aveva fatto il corpo arcobaleno se non ricordo male uno o due secoli fa, lasciando solo le unghie e i capelli o qualche cosa del genere :?

    non oso neppure immaginare quanto tempo Questi passino in un certo stato e quanto infinito possano aver visto. semplicemente fantascienza

    con la premessa che non so quanto possa essere attendibile, ti linko questo video che probabilmente aggiunge poco alle tue conoscenze ma magari offre qualche spunto per fare qualche connessione :)

    se non altro l'accento inglese dello speaker si lascia ascoltare con piacere :D
     
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    Shankar Kulanath

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    Se ho ben capito, in questo Sutta - che mai ho letto prima d'ora - si dice che tale monaco davanti al Buddha avrebbe raggiunto l'estinzione volando nel cielo seduto a gambe incrociate ed estinguendosi tra le fiamme di una combustione spontanea.

    Sei in grado di trovare un'altra traduzione, per poterla confrontare?

    Comunque non si tratta di un equivalente del corpo di luce dello Dzogchen, per la seguente ragione: Il corpo di Luce non implica in alcun modo una combustione spontanea del praticante, né avviene nel contesto di un fenomeno di levitazione del praticante. Al momento della morte, il corpo del praticante si rimpicciolisce fino a scomparire, e di sé restano solo unghie e capelli.

    Chiaramente ci sono delle somiglianze, ma è una cosa diversa. Devi considerare inoltre che nello stesso buddhismo tibetano ci sono diverse fenomenologie realizzative che possiedono delle somiglianze, pur essendo diverse: ad esempio la realizzazione del corpo illusorio, del corpo di arcobaleno, del corpo di luce, del corpo atomico, etc, sono tutte diverse.
     
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    Grazie a tutti per le risposte. Tutti e tre avete menzionato la permanenza di capelli e unghie, il che mi fa pensare, come detto da Destiny, che la prodigiosa estinzione finale di Dabba Mallaputta non sia esattamente un antecedente del corpo di arcobaleno, poiché di Dabba non rimase alcunché, né dal punto di vista fisico né dal punto di vista mentale. Il termine usato per indicare la dissoluzione del suo corpo è abhedi, "distrutto", "frantumato", "infranto", e viene esplicitamente detto che dalla combustione non derivò cenere (chārikā) né altro.

    Per traduzioni dei sutta in esame alternative a quelle, pur buone, di Bhante Sujato, si vedano:
    1) https://suttacentral.net/ud8.9/en/anandajoti
    2) https://suttacentral.net/ud8.10/en/anandajoti
     
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    Confermo che i testi citati sono corretti, avevo già avuto modo di leggerli in varie traduzioni.

    Per quanto concerne il corpo di luce, preciso che esistono quanto meno tre diverse tipologie di realizzazione:
    1) Il corpo d'arcobaleno, in cui il corpo si rimpicciolisce emettendo luci con i colori dell'arcobaleno. In alcuni casi, rimpicciolisce fino a sparire lasciando unghie e capelli. Questo ottenimento è generato dalla realizzazione della pratica del trekchö.
    2) Il corpo di luce, in cui il corpo svanisce completamente nello spazio dissolvendosi in luce. Non rimane nulla. Questo ottenimento è generato dalla realizzazione della pratica del tögal.
    3) Il corpo d'arcobaleno del grande trasferimento, in cui il corpo svanisce completamente nello spazio dissolvendosi in luci dei colori dell'arcobaleno. Non rimane nulla. Questo ottenimento è generato dalla realizzazione della pratica del tögal. In questo caso, il realizzato mantiene la sua coscienza in questo universo materiale, e la utilizza in successive incarnazioni a beneficio di tutti gli esseri senzienti.

    I due sutta relativi alla storia del monaco Dabba (Udana 8.9 e 8.10) descrivono il dissolversi del corpo in un fuoco, potrebbe essere pertanto la descrizione del corpo di luce o del corpo d'arcobaleno del grande trasferimento, che, in effetti, sono tra le realizzazioni più elevate dello Dzogchen.

    Non ho contezza di altri sutta del canone Pali che trattino di questa tematica. Segnalo però dei sutta con argomenti similari, che si prestano a tracciare similarità con altre pratiche, quali Dzogchen o Tantra. In particolare:

    Udana 8.1 Nibbana Sutta e seguenti 8.2, 8.3 e 8.4, in cui il Nibbana è descritto come segue: "Vi è quella dimensione dove non c’è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell’infinità dello spazio, né la dimensione dell’infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di ‘né-percezione-né-non-percezione’; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza". Questo testo, in parte, ricorda la descrizione di uno stato oltre le Cinque Luci dello Dzogchen.

    Digha Nikaya 11, Kevatta Sutta: vi sono spiegazioni di pratiche ed altro che ricordano insegnamenti Tantra, filosofia Cittamatra e Dzogchen.

    Qualche ulteriore assonanza:

    Anguttara Nikaya 7.66 Sattasuriya Sutta: il Buddha parla dell'impermanenza dell'universo, e nel farlo cita ere future scandite da vari soli, quando descrive il settimo ed ultimo sole, parla di un processo di esaurimento simile a quello del monaco Dabba, ma applicato a tutto l'universo. In particolare: "Verrà un tempo in cui, dopo un periodo molto lungo, apparirà un settimo sole. Quando questo accadrà, questa grande terra e Sineru, il re delle montagne, erutteranno in una massa di fuoco ardente. E mentre arderanno e bruceranno, le fiamme saranno spinte dal vento fino al mondo di Brahmā. Sineru, il re delle montagne, arderà e brucerà, sbriciolandosi sopraffatto dal grande fuoco. Intanto, le cime delle montagne alte cento leghe, o due, tre, quattro o cinquecento leghe si disintegreranno mentre bruceranno. E quando la grande terra e Sineru, il re delle montagne, arderanno e bruceranno, non ci sarà né fuliggine né cenere. È come quando il ghee o l’olio arde e brucia, e non vi è né cenere né fuliggine. Allo stesso modo, quando la grande terra e Sineru il re delle montagne arderanno e bruceranno, non vi sarà né fuliggine né cenere."

    Infine, in alcuni Sutta si tratta del tema della luce, di come ve ne siano alcune visibili e una segreta. Cito ad esempio il Pajjotta Sutta (Samyutta Nikaya 1.26) in cui si afferma:

    “Quante luci illuminano il mondo?
    Lo chiediamo al Benedetto.”

    “Vi sono quattro luci al mondo, una quinta non la si conosce
    durante il giorno il sole splende e di notte brilla la luna.
    Cinque luci qui ed altrove, notte e giorno
    risplendono, di tutte una sola è suprema ed incomparabile.”
     
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    CITAZIONE (Mjölnir @ 30/1/2024, 14:43) 
    I due sutta relativi alla storia del monaco Dabba (Udana 8.9 e 8.10) descrivono il dissolversi del corpo in un fuoco, potrebbe essere pertanto la descrizione del corpo di luce o del corpo d'arcobaleno del grande trasferimento, che, in effetti, sono tra le realizzazioni più elevate dello Dzogchen.

    Grazie della tua bella e stimolante risposta. È davvero curioso come già nel canone siano contenute, più o meno sviluppate, dottrine e pratiche che sono giunte a piena maturazione secoli e secoli dopo. Ciò prova che il cambiamento, nel buddhismo e non solo, avviene mantenendo ben saldo il legame con le "origini". L'innovazione, cioè, non si manifesta attraverso una rottura radicale col passato, ma in continuità con esso.

    CITAZIONE
    Segnalo però dei sutta con argomenti similari, che si prestano a tracciare similarità con altre pratiche, quali Dzogchen o Tantra.

    Potresti dettagliare questo punto?

    CITAZIONE
    Questo testo, in parte, ricorda la descrizione di uno stato oltre le Cinque Luci dello Dzogchen.

    Di nuovo, potresti dare qualche informazione in più?

    CITAZIONE
    Digha Nikaya 11, Kevatta Sutta: vi sono spiegazioni di pratiche ed altro che ricordano insegnamenti Tantra, filosofia Cittamatra e Dzogchen.

    Conosco questo sutta, ma molto poco le tradizioni che hai citato. Potresti, allora, spiegarmi la relazione tra il Kevaṭṭa-sutta e i successivi sviluppi che hai detto?

    CITAZIONE
    Infine, in alcuni Sutta si tratta del tema della luce

    Nel Bāhiya-sutta, verso la fine, il Buddha dice del defunto Bāhiya che è divenuto "del tutto estinto" (parinibbuto), e subito dopo pronuncia dei versi ispirati che pure hanno a che vedere con la luce, con tanto evidente quanto misterioso riferimento al nibbāna, di cui si dice: ove i quattro elementi non trovano appoggio (gādhati), ivi non rifulgono le stelle, né il sole né la luna, eppure non vi è tenebra (tamo). Suppongo che questo passo sia da interpretare nel senso che, innanzitutto, il nibbāna non è una dimensione fisica, perché ivi terra, acqua, aria e fuoco non sussistono, e poi che, pur mancandovi quelle sorgenti luminose che sono le stelle, non si trova oscurità, ma - possiamo desumerlo? - una "luce" di natura non fisica. Che ne dici?
     
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    Ci sono vari spunti sulle luci, ad esempio (Khandhaka 1.12) quando il Buddha, con i suoi poteri sovrannaturali sconfigge il trago di Uruvela, penetrando il potere del fuoco, si dice che aveva fiamme di vari colori nel corpo (o intorno al corpo). Nello stesso testa c'è poi qualcosa di simile ad un mandala, con il Buddha in meditazione e i quattro grandi re che appaiono si dispongono intorno a lui nei quattro punti cardinali. Poi si manifestano varie divinità, etc...
     
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    Invece nel Kathavatthu 2.5 Vacībhedakathā si parla proprio delle cinque luci e le si legano alla pratica del Dhyan

    Affermate la vostra tesi, ma negate che essa si applichi a chi ha raggiunto il Jhāna attraverso uno qualsiasi degli otto elementi, cioè terra, acqua, fuoco o aria; colore verde-blu, giallo, rosso o bianco, o attraverso una qualsiasi delle quattro induzioni concettuali immateriali, cioè l’infinità dello spazio o della coscienza, il “nulla” o “né-percezione-né-non-percezione”. Come può essere intelligibile tutto ciò? Se negate ciascuna di queste possibilità, non potete affermare la vostra tesi.

    Si citano i cinque colori (luci colorate): verde, blu, giallo, rosso e bianco, usati anche nei mandala e queste luci, insieme agli elementi e alle induzioni concettuali, sono alla base della pratica di Dhyana.
     
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    O sul sorgere di una luce interna (sarà la chiara luce di altre tradizioni buddhiste?), si veda il Niyāmokkantikathā in cui il Buddha afferma:

    “Monaci, riguardo a realtà mai apprese prima che la visione, la visione profonda, la conoscenza, la saggezza, la luce sorsero in me al pensiero della Verità Ariana della natura della sofferenza, e che questa Verità doveva essere compresa, e fu da me compresa”
     
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    Nel Samyutta Nikaya 56.12 Tathāgata Sutta, si indicano le Quattro Nobili Verità, e si afferma che esse fanno sorgere nei Tathagata "la visione, la conoscenza, la saggezza, la vera conoscenza e la luce".

    Ebbene come ultima realizzazione sorge nei Tathagata la luce...
     
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    CITAZIONE (Mjölnir @ 30/1/2024, 19:49) 
    O sul sorgere di una luce interna (sarà la chiara luce di altre tradizioni buddhiste?), si veda il Niyāmokkantikathā in cui il Buddha afferma:

    “Monaci, riguardo a realtà mai apprese prima che la visione, la visione profonda, la conoscenza, la saggezza, la luce sorsero in me al pensiero della Verità Ariana della natura della sofferenza, e che questa Verità doveva essere compresa, e fu da me compresa”

    "Verità Ariana"? Il testo originale parla di ariyasacca, che in realtà significa "nobile verità". A parte questo, sempre parlando di luce, e in particolare della possibile anticipazione nel canone della "chiara luce", c'è il famoso Pabhassara-sutta, dove la mente (citta) è detta rilucente (pabhassara), ma maculata da impurità (upakkilesa); tuttavia, queste possono venire meno, lasciando il citta risplendere nella sua purezza.

    Inoltre, nel Sāmaññaphala-sutta si parla del citta che ha raggiunto il quarto jhāna come concentrato (samāhita), puro (parisuddha), luminoso (pariyodāta), immacolato (anaṅgaṇa), privo di impurità (vigatūpakkilesa), flessibile (mudubhūta), lavorabile (kammaniya), stabile (ṭhita) e inconcusso (āneñjappatta).

    Ancora, spostandoci in area commentariale, nell'Atthasālinī (pagg. 17 e 18 della traduzione della Pāli Text Society) - commentario della Dhammasaṅgaṇī - Buddhaghosa scrive che, nella quarta settimana dopo il suo risveglio, il Buddha contemplò l'Abhidhamma, e arrivato al Paṭṭhāna il suo corpo divenne raggiante, emettendo sei colori diversi.

    Nel Visuddhimagga si fa menzione di “dieci imperfezioni della vipassanā” (dasa vipassanūpakkilesa), tra cui la manifestazione di un'aura luminosa (obhāsa). Torna, dunque, il riferimento alla luce, ma stavolta in un contesto in cui il praticante è chiamato a prenderne le distanze, per proseguire il suo cammino verso il totale risveglio, senza scambiare quel sottoprodotto (e altri) della pratica contemplativa per il compimento del percorso soteriologico.

    Direi, insomma, che già nel canone e nei commentari pāli ci siano parecchi elementi che possono essere visti, se non come precursori storici, quanto meno come più o meno affini a dottrine e pratiche compiutamente sviluppate in seguito.

    Edited by Fantasia - 31/1/2024, 11:03
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 31/1/2024, 08:18) 
    "Verità Ariana"? Il testo originale parla di ariyasacca, che in realtà significa "nobile verità".

    Così è tradotto sul sito canonepali.net ed anche in altre traduzioni (ora non ho la mia biblioteca a portata di mano, ma in alcuni testi è tradotta così).
    Ossia la parola Ariya è tradotta come ariana e non come nobile, stante il fatto che probabilmente le due cose sono state considerate sinonimi (presumo, non sono io il traduttore di questi testi, mi affido a traduzioni). Comunque il tema è linguistico ed eventualmente storico, quindi devia dall'argomento della nostra discussione relativa a luce, luci colorate / corpo arcobaleno.

    Qui al volo da wikipedia

    Aryan or Arya (/ˈɛəriən/;[1] Indo-Iranian *arya) is a term originally used as an ethnocultural self-designation by Indo-Iranians in ancient times, in contrast to the nearby outsiders known as 'non-Aryan' (*an-arya).[2][3] In Ancient India, the term ā́rya was used by the Indo-Aryan speakers of the Vedic period as an endonym (self-designation) and in reference to a region known as Āryāvarta ('abode of the Aryas'), where the Indo-Aryan culture emerged.[4] In the Avesta scriptures, ancient Iranian peoples similarly used the term airya to designate themselves as an ethnic group, and in reference to their mythical homeland, Airyanǝm Vaēǰō ('expanse of the Aryas' or 'stretch of the Aryas').[5][6] The stem also forms the etymological source of place names such as Alania (*Aryāna-) and Iran (*Aryānām).[7]

    Although the stem *arya may be of Proto-Indo-European (PIE) origin,[8] its use as an ethnocultural self-designation is only attested among Indo-Iranian peoples and there is no evidence of its use among 'Proto-Indo-Europeans'. In any case, scholars point out that, even in ancient times, the idea of being an Aryan was religious, cultural, and linguistic, not racial.[9][10][11]


    Da dizionario di Sanscrito online

    Source: DDSA: The practical Sanskrit-English dictionary
    Arya (अर्य).—a. [ṛ-yat]

    1) Excellent, best.

    2) Respectable.

    3) Attached, true, devoted.

    4) Dear, kind; Ṛgveda 1. 123.1.

    --- OR ---

    Ārya (आर्य).—a. [ṛ-ṇyat]

    1) Āryan, an inhabitant of आर्यावर्त (āryāvarta), Name of the race migrated into India in Vedic times.

    2) Worthy of an Ārya.

    3) Worthy, venerable, respectable, honourable, noble, high; यदार्यमस्यामभिलाषि मे मनः (yadāryamasyāmabhilāṣi me manaḥ) Ś.1.22; R.2.33; so आर्यवेषः (āryaveṣaḥ) respectable dress; oft. used in theatrical language as an honorific adjective and a respectful mode of address; आर्यचाणक्यः, आर्या अरुन्धती (āryacāṇakyaḥ, āryā arundhatī) &c.; आर्य (ārya) revered or honoured Sir; आर्ये (ārye) revered or honoured lady. The following rules are laid down for the use of आर्य (ārya) in addressing persons:-(1) वाच्यौ नटीसूत्रधारावार्यनाम्ना परस्परम् (vācyau naṭīsūtradhārāvāryanāmnā parasparam) | (2) वयस्येत्युत्तमैर्वाच्यो मध्यैरार्येति चाग्रजः (vayasyetyuttamairvācyo madhyairāryeti cāgrajaḥ) | (3) (vaktavyo) अमात्य आर्येति चेतरैः (amātya āryeti cetaraiḥ) | (4) स्वेच्छया नामभिर्विप्रैर्विप्र आर्येति चेतरैः (svecchayā nāmabhirviprairvipra āryeti cetaraiḥ) | S. D.431.

    4) Noble, fine, excellent.

    -ryaḥ 1 Name of the Hindu and Iranian people, as distinguished from अनार्य, दस्यु (anārya, dasyu) and दास (dāsa); विजानीह्यार्यान्ये च दस्यवः (vijānīhyāryānye ca dasyavaḥ) Ṛgveda 1.51.8.

    2) A man who is faithful to the religion and laws of his country; कर्तव्यमाचरन् कार्यमकर्तव्यमनाचरन् । तिष्ठति प्रकृताचारे स वा आर्य इति स्मृतः (kartavyamācaran kāryamakartavyamanācaran | tiṣṭhati prakṛtācāre sa vā ārya iti smṛtaḥ) ||

    3) Name of the first three castes (as opp. to śūdra).

    4) respectable or honourable man, esteemed person; वृत्तेन हि भवत्यार्यो न धनेन न विद्यया (vṛttena hi bhavatyāryo na dhanena na vidyayā) Mb.; परमार्यः परमां कृपां बभार (paramāryaḥ paramāṃ kṛpāṃ babhāra) Bu. Ch.5.6.

    5) A man of noble birth.

    6) A man of noble character.

    7) A master, owner.

    8) A preceptor; वैमानि- कार्यसमभूमा (vaimāni- kāryasamabhūmā) Viś. Guṇā.124; Mu.3.33.

    9) A friend.

    1) A Vaiśya.

    11) A father-in-law (as in āryaputra).

    12) A Buddha.

    13) (With the Buddhists) A man who has thought on the four chief principles of Buddhism and lives according to them.

    14) A son of Manu Sāvarṇa.
     
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    A favore della discussione, riporto per intero uno dei Sutta da te citato.

    AN 1.49-52: Pabhassara Sutta – Luminosa
    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è sporcata dagli influssi impuri.”

    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è liberata dagli influssi impuri.”

    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è sporcata dagli influssi impuri. La persona ordinaria (puthujjana) non istruita, non percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per una persona ordinaria, non istruita, non v’è nessuna coltivazione della mente”.

    “Luminosa, o monaci, è la mente, ma è liberata dagli influssi impuri. Il discepolo dei Nobili, istruito, percepisce ciò come [il suo stato] reale, questo è perché, per un discepolo dei Nobili, istruito, v’è una coltivazione della mente”.
     
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    CITAZIONE (Mjölnir @ 31/1/2024, 11:36) 
    Così è tradotto sul sito canonepali.net ed anche in altre traduzioni (ora non ho la mia biblioteca a portata di mano, ma in alcuni testi è tradotta così).
    Ossia la parola Ariya è tradotta come ariana e non come nobile, stante il fatto che probabilmente le due cose sono state considerate sinonimi (presumo, non sono io il traduttore di questi testi, mi affido a traduzioni). Comunque il tema è linguistico ed eventualmente storico, quindi devia dall'argomento della nostra discussione relativa a luce, luci colorate / corpo arcobaleno.

    Le traduzioni del sito canonepali.net non sono molto affidabili, trattandosi di traduzioni di traduzioni (pāli -> inglese -> italiano).

    Per quanto riguarda la parola ārya, la questione è, come giustamente hai detto, storica e linguistica. Ārya è il modo in cui si auto-definiva la popolazione indoeuropea, inizialmente nomade, che ha conservato il Veda, ma il termine, dapprincipio indicante una piccola etnia dell'India nord-occidentale (piana dell'Indo), in seguito assunse il significato di "nobile": questa è senz'altro l'accezione buddhista, dove il riferimento originario a un popolo specifico è andato perso.

    Era opinione condivisa dagli indologi, e in parte ancora lo è, che gli ārya non fossero originari dell'India, ma provenissero da fuori e avessero invaso a più riprese l'India, soggiogando gli autoctoni sia militarmente che culturalmente. Oggi la validità di questa tesi è messa in discussione, anche perché il Veda non parla esplicitamente di una provenienza altra dall'India degli ārya. Il dibattito è complicato dal fatto che fondamentalmente gli ārya non hanno lasciato reperti archeologici che possano aiutare a fare chiarezza sulla loro provenienza, sull'organizzazione sociale e politica etc., ma "soltanto" il Veda. Credo che un contributo alla discussione possa offrirlo Parvatah. Giusto un flash, per non andare troppo off-topic.
     
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