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Tralasciando l'italico teatro, torniamo tra le lande del Re del Mondo…
Dalle terre mongole
Oltre a von Ungern che già conosciamo, qualche notizia sui buddhisti Dja Lama e Bodgo Khan.
Tratto da Ri-legature buddhiste (Edizioni Univ. Romane, 2010, pp. 320-326) di Riccardo Venturini (www.blogger.com/profile/03426626372530449521). ________
<< […] Uno dei personaggi di rilievo era il barone e generale dell'armata zarista Roman Ungern von Sternberg, custode della tradizione, nemico spietato della sovversione e, per ciò stesso, della rivoluzione russa. Inseritosi nei disordini controrivoluzionari in Siberia e in Asia centrale, egli svolse un'azione decisiva per impedire che la Mongolia esterna facesse la stessa fine di quella interna. Sentendosi una sorta di reincarnazione di Gengis Khan, egli sperava di guidare un movimento nazionalista panmongolo alla liberazione e alla unificazione di tutti i territori abitati dai mongoli, per organizzare poi una sorta di crociata antibolscevica, volta alla liberazione della Russia e all'affermazione dei valori della "tradizione". Costretto a ritirarsi di fronte ai rossi, passò in Mongolia, ove, a capo di un'armata di russi bianchi e di elementi locali, conquistò la capitale Urga, liberò il Bodgo Khan, tenuto agli "arresti domiciliari" dai cinesi, e ne restaurò il potere. Ossendowski, conquistatane la fiducia, ricevette da Ungern un aiuto determinante per poter raggiungere Pechino e tornare in patria. Raccogliendone confidenze e propositi, egli ci ha così reso possibile conoscere alcuni aspetti inediti del buddhismo vissuto nell'Asia centrale in quegli anni. Ungern, nel racconto che fa a O., dichiara infatti di avere conosciuto e abbracciato il buddhismo («mio nonno ci fece conoscere il buddhismo di ritorno dall'India e mio padre e io ne facemmo la nostra religione»), praticandolo in modo a dir poco originale:
Ho consacrato la mia vita alla guerra e allo studio del buddhismo [... e] in Transbaikalia ho cercato di istituire l'Ordine militare buddhista per combattere implacabilmente la depravazione rivoluzionaria. [...] Stabilii l'obbligo del celibato, la rinuncia assoluta alla donna, alle comodità della vita, al superfluo, secondo gli insegnamenti della Fede Gialla; e affinché la Russia potesse col tempo dimenticare o domare i suoi istinti, introdussi un uso illimitato di alcool, hashish ed oppio. Adesso, come sapete, non esito ad impiccare ufficiali e soldati che abusano di alcool; ma allora bevevamo fino alla "febbre bianca", il delirium tremens. Mi fu impossibile organizzare un simile Ordine, ma raccolsi intorno a me trecento uomini che ero riuscito a rendere di un'audacia prodigiosa e d'una ferocia senza pari. Poi si comportarono da eroi durante la guerra con la Germania e successivamente nella lotta con i bolschevichi, ma ormai ne sono rimasti ben pochi ("Bestie, uomini, dei" - pp. 184, 188).
[...] Benché avesse dotato Urga di una rete di illuminazione, del telefono e di una stazione telegrafica, un servizio di autobus, creato ospedali, aperto scuole e protetto il commercio, il regime di terrore da lui imposto, e che gli valse il soprannome di "barone sanguinario", finì per alienargli le simpatie del popolo, per cui fu presto sconfitto (1921) da forze congiunte di russi sovietici e di rivoluzionari mongoli, e (come alcune "profezie" gli avevano preannunciato) ucciso, a Novonikolaevsk (Novosibirsk). […]
Non meno interessante, per capire il mondo culturale e religioso del periodo, è un'altra singolare e misteriosa figura che giocò un importante ruolo, nella storia della autonomia della Mongolia degli anni 1911-19: quella del cosiddetto "lama vendicatore" Luvsan Dambidjantsan o Dja Lama. Il "lama vendicatore" comparve a O. indossando un banale cappotto di montone e un berretto con paraorecchi di pelle di daino e, appeso alla cintura, un grande pugnale; ma il banale soprabito celava una
meravigliosa tunica di seta, gialla come oro zecchino e stretta in vita da una fascia d'un blu brillante. Il suo volto accuratamente rasato, i capelli corti, il rosario di corallo rosso nella mano sinistra e la sua veste gialla, dimostravano chiaramente che eravamo al cospetto di un lama di "alto rango" con una Colt infilata nella fascia blu (p. 99). Il Dja Lama era un calmucco russo [cioè appartenente al gruppo mongolo migrato verso occidente e stabilitosi negli Urali e sulle rive del Volga], che a causa della sua attività a favore dell'indipendenza del popolo calmucco, aveva conosciuto molte prigioni russe sotto lo zar e, per la stessa ragione, era stato incluso nel libro nero dei bolscevichi. Era fuggito in Mongolia e presto s'era conquistato una posizione di grande influenza tra i mongoli. Non c'era di che meravigliarsi, perché era amico intimo e pupillo del Dalai Lama che viveva nel suo palazzo di Lhasa, il Potala, era il più dotto dei lamaisti, un vero sapiente, e un famoso dottore e taumaturgo. [...] Il suo potere era irresistibile, basato su una scienza misteriosa e segreta [... e] in gran parte sul terrore che ispirava ai mongoli. Chiunque disobbediva ai suoi ordini periva. Il malcapitato non sapeva mai il giorno o l'ora in cui, nella sua yurta o mentre galoppava nelle pianure, sarebbe apparso il potente e misterioso amico del Dalai Lama. Una coltellata, una pallottola o dita d'acciaio che gli stingevano il collo in una morsa facevano giustizia secondo i piani di quell'operatore di miracoli (p. 100 s.).
Con qualche sconcerto, O. assistette a una sorta di seduta di ipnosi da spettacolo in cui il lama, per pura dimostrazione dei suoi "poteri", piantò un coltello nel petto di un malcapitato pastore, il quale stramazzò a terra coperto di sangue, mentre nel torace aperto si potevano osservare i polmoni che respiravano e il cuore che palpitava. Dopo di ché tutto tornò in ordine, col pastore che dormiva tranquillamente e il lama che «seduto immobile davanti al braciere, fumava la pipa e fissava le braci immerso in profondi pensieri» (p. 102). O. offre la sua modesta interpretazione "razionale" in termini di suggestione, ma non sarebbe stato quello il solo dei fenomeni "paranormali" che lo avrebbero coinvolto nel suo errare in quella terra ricca di "bestie, uomini e dei". Il Dja Lama viene descritto circondato da timore e profonda venerazione, capace di legare a sé ricchi e poveri con i suoi miracoli e profezie. Per questo, la leggenda voleva che egli fosse stato capace, al tempo dell'insurrezione (1911-12), di guidare alla vittoria i mongoli male armati e male organizzati, facendo visualizzare loro uno stato di eterna beatitudine dopo la morte. Nel corso di una furiosa battaglia essi morirono sì a centinaia, ma annientarono e uccisero tutti i cinesi, mettendo così fine alla loro dominazione e liberando anche il Bodgo Khan, il quale dette al Dja Lama il titolo di "Principe della religione". Il "paradiso" mongolo-buddhista presentato dal lama vendicatore, coerente con le sue affermazioni sui "poteri", ci offre materiale di riflessione sulla inculturazione del buddhismo in Paesi in cui lo sciamanismo restava (e forse resta tuttora) una presenza viva e significativa. Secondo le parole del "lama vendicatore",
Voi europei non volete ammettere che noi nomadi ignoranti possediamo i poteri della scienza del mistero. Se solo poteste vedere i miracoli e il potere del Santissimo Tashi Lama, allorché al suo comando lampade e candele davanti all'antica statua del Buddha si accendono da sole e le icone degli dei cominciano a parlare e profetizzare! (p. 102).
Nonostante queste sue convinzioni e i suoi poteri fuori del comune, il Lama si stava avviando a una infausta fine. La storica russa Inessa Lomakina, quasi a protestare contro la pressoché totale cancellazione del nome del Dja Lama dalla storia mongola, ha recentemente (1995) pubblicato un volume sul personaggio, fornendo molte notizie su di lui e, in particolare, sul compimento del suo tragico destino. Inviso ai russi, che malvedevano l'apparizione di questo eroe nazionale, egli fu arrestato e inviato ad Astrakhan, da dove riuscì tuttavia a fuggire e a tornare di nuovo in Mongolia, forse sperando di riappropriarsi delle terre e dei titoli di cui era stato privato. Ma, ormai superato dagli eventi, egli fu presto costretto a ritirarsi in una sorta di fortezza nel deserto di Gobi, ove gli agenti comunisti gli tesero un tranello, riuscendo ad assassinarlo nel 1922-23. La sua testa, mummificata, in cima a una picca fu esibita in giro per la Mongolia, per convincere tutti che il leggendario e invincibile lama era stato finalmente sconfitto e ucciso. […]
L'ultimo dei grandi personaggi incontrati da O. su cui vorrei ora soffermarmi, fu l'ottavo Bogdo Khan, la personalità guida del buddhismo mongolo, nel periodo che stiamo considerando. I rapporti tra i buddhisti tibetani e mongoli sono stati, come è noto, assai stretti nel corso del tempo e il sistema del riconoscimento delle reincarnazioni ha portato a reciproci accreditamenti e scambi tra i leader religiosi delle due etnie. Il titolo stesso di Dalai (cioè "Oceano", in mongolo: Ta-le) Lama, va ricordato, fu dato a Sonam Gyatso (1543-1588), leader dell'ordine Gelukpa, dal mongolo Altan Khan, discendente di Gengis Khan. […] La vita dell'VIII Bodgo Khan non fu quella che si può dire una vita tranquilla. Egli era tibetano, proveniente
da una famiglia povera dei dintorni di Sakkia Kure, nel Tibet occidentale. Sin dalla prima giovinezza palesò una natura tempestosa e poco equilibrata. Era infiammato dall'idea dell'indipendenza mongola e ardeva dal desiderio di rendere nuovamente gloriosi i discendenti di Gengis Khan. Ciò gli guadagnò grande influenza sui lama, i principi e i Khan della Mongolia, e destò anche l'interesse del governo russo che cercò sempre di averlo dalla sua parte (p. 220).
Secondo le testimonianze e le confidenze raccolte da O., la politica autonomistica del Bodgo Khan gli valse l'ostilità non solo dei cinesi, ma anche del Dalai Lama: nell'uno e nell'altro caso ci sarebbero stati complotti e tentativi di avvelenamento, risoltisi invece, grazie a un'attenta e sempre attiva vigilanza della corte, con la morte degli attentatori. Il Bodgo Khan, scrive O.,
viene immediatamente a conoscenza anche della più insignificante cospirazione ordita ai suoi danni e di solito la persona che l'ha in tal modo offeso viene amabilmente invitata ad Urga, da cui non riparte più viva (p. 221).
Questo era dunque, al tempo della permanenza di O., il "Buddha vivente", che viveva nel suo palazzo di Urga (il cosiddetto "Palazzo d'inverno del Bodgo Khan"), attorniato da 60.000 monaci, di ogni età e di ogni rango, e da «folle di taumaturghi minori, profeti, stregoni e medici miracolosi» (p. 179). Grande visionario e nazionalista, ma personalità discutibile (secondo O. era divenuto padre con l'intento di assicurare un discendente al sacro trono di Gengis Khan; dedito al sesso e all'alcool, al pari di «sua moglie che beveva come lui e riceveva in sua vece numerose delegazioni e inviati speciali», p. 199); reso quasi cieco dall'alcool o dalla sifilide; responsabile "a detta di O." della eliminazione dei lama che, alla fine, avevano progettato di avvelenarlo per insediare al suo posto un altro Buddha incarnato. Pur nella difficoltà di procedere a serie verifiche storiche di queste affermazioni, i resoconti di O. ci offrono l'occasione di riflettere sul sistema del "riconoscimento" e della successione dei reincarnati/Buddha viventi, nonché sugli intrighi delle corti teocratiche, sia per quanto riguarda la Mongolia sia per il Tibet, e la stessa sequenza dei Dalai Lama tibetani (ricordando le vicende del VI, «poeta e libertino», come scrive S. Batchelor, e quelle dei successivi IX, X, XI, XII, tutti morti bambini o adolescenti, probabilmente avvelenati). Sul sottofondo sciamanico sul quale si è venuto costruendo l'impianto culturale buddhista si colloca il fenomeno della divinazione e degli oracoli, presente ancora oggi nel buddhismo dell'Asia centrale, fenomeno poco noto in Occidente, nonostante la diaspora tibetana. O. ci dà informazioni di prima mano di varie divinazioni e delle capacità oracolari e delle "trance" dello stesso Bogdo Khan. [...] racconta di una "seduta" (del 17 maggio 1921) nella quale il Bodgo Khan, dopo essere uscito dal suo "santuario privato", riferì della sua enigmatica "visione" affidandola solennemente all'interpretazioni dei suoi, con queste parole:
Io, Bodgo Utuktu Khan, questo ho visto parlando con il grande e saggio Buddha, circondato dai dèmoni buoni e da quelli maligni! Saggi Lama, Hutuktu, Kampo [abate o laico di alto rango religioso], Maramba [dottori in "teologia"], e Santi Gheghen [giusto, santo], date il vostro responso sulla mia visione (p. 223).
[...] forme di spiritualità che non possono non apparire "arcaiche" rispetto all'insegnamento del Buddha e alla pratica della focalizzazione sul vissuto presente, senza fughe nel passato o nel futuro.
Ancor più stupefacenti sono le connessioni che O. ci rivela tra questi modi di inculturazione del buddhismo in Mongolia e la tradizione di un misterioso centro iniziatico situato in un Regno sotterraneo (posto nell'Asia centrale, in Tibet, in Mongolia, nel deserto di Gobi?), sviluppantesi attraverso una rete planetaria di gallerie e a capo del quale è collocato il cosiddetto Re del mondo. In risposta alle richieste di informazioni, Gelong Lama diceva a O.:
Più di sessantamila anni fa un santo scomparve nel sottosuolo con un'intera tribù e non riapparvero mai sulla faccia della Terra. Tuttavia, da allora, molte persone hanno visitato quel regno: Sakiamuni, Undur Gheghen, Khan Baber e altri ancora. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Alcuni dicono in Afghanistan, altri in India. Tutti coloro che vivono nel regno sotterraneo sono salvi dal Male ed entro i suoi confini il crimine non alligna. La scienza ha potuto svilupparsi pacificamente e non esiste minaccia di distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno popolato da milioni di uomini e il Re del mondo è il loro sovrano. Egli conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino. [...] (p. 228).
Il lama bibliotecario del Bogdo Khan precisava poi che il Re del mondo è colui che sta al cospetto di Dio, ne vede il volto e, quando i tempi saranno maturi, si paleserà a tutti per guidare i buoni contro i cattivi; ma questo tempo non è ancora giunto perché il più malvagio degli umani non è ancora nato. Eccoci dunque in presenza di un vero racconto escatologico, in cui trova posto anche la figura di un qualche misterioso "anticristo" (buddhista?). […]
Alla morte del Bogdo Khan Zavzandamba (1924), fu però proclamata la Repubblica popolare mongola e il Partito del popolo divenne il Partito popolare rivoluzionario mongolo. Il nuovo potere vietò che si procedesse al riconoscimento di nuovi reincarnati e la Mongolia divenne il primo Paese, dopo la Unione sovietica, in cui fu instaurato un regime comunista. Si avviò così la triste sequenza di totalitarismo, collettivizzazioni, carestie e persecuzioni, purghe degli stessi capi rivoluzionari: si calcola che sotto il regime sia stato eliminato il 3% della popolazione, tra cui varie decine di migliaia di monaci (20.000 assassinati e molte altre migliaia imprigionati o inviati in campi di lavoro da cui non fecero più ritorno): il ritrovamento di fosse comuni ha purtroppo confermato quello che era già conosciuto o sospettato. Ad es., in una fossa scoperta a Mörön, vicina al confine con l'ex-URSS, sono stati ritrovati i resti di circa 5.000 monaci e, in una intervista (della BBC) al capo della squadra di sterminio dell'epoca, questo ha raccontato: «Li facevo ammucchiare su un camion e li facevo stendere, mentre venivano passati per le armi. Non c'era giustizia in Mongolia allora: la maggioranza di quelli giustiziati non aveva commesso alcun crimine». Tutto ciò ha fatto sì che in pochi decenni il buddhismo fosse quasi completamente sradicato. Se Damdiny Sukhebatar (1893-1923, liberatore della capitale Urga, che in suo onore fu chiamata Ulaan Baatar o Ulan Bator, cioè "eroe rosso"), era detto il "Lenin mongolo", dopo la sua morte (prematura, forse per veleno dei controrivoluzionari), il suo successore come segretario del Partito, Tseren-Ochiryn Dambadorj, fu esiliato a Mosca e, nel 1928, su pressione sovietica la leadership passò a Khorloghin Choibalsan (1873-1952), considerato lo "Stalin mongolo". Muovendosi nell'orbita sovietica, la Mongolia fu certamente protetta da una possibile invasione giapponese nel 1941, e nel dopoguerra ha dovuto faticare per vedere riconosciuta la sua indipendenza, che fu poi internazionalmente sancita dall'ammissione alle Nazioni Unite nel 1961. Sovietizzata pesantemente sul piano politico, militare, economico e culturale, con la caduta dell'impero sovietico la Mongolia ha cominciato un lento processo di democratizzazione e liberalizzazione. [...] Dopo gli anni della repressione è cominciata anche una nuova fioritura della vita religiosa, che ha visto la riapertura e la ricostruzione di monasteri e centri religiosi. Se confrontiamo i dati del 1921 (100.000 lama e 700 monasteri) con quelli attuali, le differenze sono davvero sconcertanti (1000 lama e 90 templi e monasteri, alcuni consistenti semplicemente in una yurta). [...] >>
https://culturabuddhista.weebly.com/storia...ssendowski.html ________
Aggiungiamo un tassello geo-genetico (?) https://m.phys.org/news/2019-08-humans-mig..._zrxBz8cLd6Lw2E
Un tassello sulle origini boreali? La civiltà artica che si espande 45mila (circa) anni fa verso sud magari secondo il modello "Out of Beringia" o comunque in zona artica. C'è chi sostiene che il breve riscaldamento di 45 mila anni fa potrebbe aver coinciso con un raffreddamento delle zone più a nord e costretto i sapiens a disperdersi.
Edited by Epi - 21/9/2019, 15:39
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