Kitarō Nishida

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    Molti anni or sono mi accorsi che l'epistemologia buddhista aveva molto da dare alla scienza occidentale ma solo di recente ho scoperto che l'argomento è stato sviscerato soprattutto da maestri e filosofi giapponesi, Kitarō Nishida è probabilmente il più importante, è un filosofo non buddhista ma...
    https://it.wikipedia.org/wiki/Nishida_Kitar%C5%8D

    Kitarō Nishida, il logos tradotto nel nulla

    Intervista ad Enrico Fongaro, traduttore delle opere del filosofo giapponese.

    Professore di Estetica alla Tohoku University di Sendai (Giappone), Enrico Fongaro è il traduttore e curatore per Mimesis delle Opere di Kitarō Nishida (1870-1945), uno fra i grandi nomi del pensiero del Novecento. Al momento le opere pubblicate sono due: Uno studio sul bene e Pensiero ed esperienza vissuta corporea.

    L’intervista che segue è un tentativo – per forza di cose limitato – di fornire al lettore una sorta di introduzione al pensatore nipponico in quattro punti: biografia; influenze; concetti; traduzione. Su quest’ultimo punto, dato il lavoro di Fongaro, si è optato per dare maggior enfasi, e quindi lasciare maggior spazio al discorso.

    GIANLUCA PULSONI: Immaginando di parlare a chi non ne sa nulla, puoi presentarci chi è Nishida?

    ENRICO FONGARO: Si potrebbe dire che Kitarō Nishida è stato il primo filosofo – filosofo nel senso occidentale del termine: meglio, nel senso contemporaneo del termine – giapponese. Nacque all’inizio dell’epoca Meiji, nel 1870, in un piccolo paesino sperduto sulle coste Mar del Giappone, Unoke. Poté istruirsi all’interno del nuovo sistema educativo “occidentalizzato” fino a laurearsi (su Hume) alla neo-fondata Università di Tokyo. In seguito, si dedicò sempre all’insegnamento, prima alle scuole medie, poi alle superiori e infine all’Università di Kyoto. Morì nel 1945, poco prima del tragico epilogo della Seconda guerra mondiale. L’originalità della sua filosofia consiste principalmente nel tentativo di introdurre all’interno del contesto della filosofia di fine Ottocento/inizio Novecento la visione del mondo propria del Buddhismo zen, che Nishida aveva praticato con grande impegno soprattutto da giovane (fu compagno di classe alle superiori e amico intimo per tutta la vita di Daisetsu Suzuki, il grande divulgatore dello zen nel mondo anglofono).

    G.P.: Puoi dirci di più?

    E.F.: Da un lato, Nishida è convinto che l’esperienza della verità, dell’aprirsi del mondo così com’è (ossia, detto in termini buddhisti: del satori, del risveglio), si dia in un’esperienza corporea immediata e pratica di intimità e immersione nella realtà, prima dell’imporsi di una qualunque forma di dualismo consapevole o consaputo. Cioè, secondo Nishida, nella prassi immediata (non solo nella meditazione zen, e qui sta la sua differenza rispetto al buddhismo in quanto pratica religiosa), in qualsiasi prassi immediata quotidiana (suonare uno strumento musicale, scalare una parete, bere un bicchier d’acqua quando si ha sete sono tutti esempi presi dal suo primo libro, Uno studio sul bene), si dà un’esperienza di verità, di apertura del mondo, sulla base della quale Nishida vorrebbe provare a creare e sviluppare dei concetti, una filosofia dotata di una sua logica e di un rigore che sarebbero, ai suoi occhi almeno, gli elementi tipicamente “occidentali” del creare filosofico. Per questo studia e si confronta con alcuni filosofi che, oltre a fornirgli strumenti concettuali, gli servono per dargli spunti decisivi – in positivo e in negativo – per creare la sua filosofia.

    G.P.: Chi sono i suoi riferimenti?

    E.F.: Via via che modificava le sue posizioni, Nishida prese a riferimento alcuni filosofi che lo accompagnano nel suo percorso teoretico: all’inizio più che William James fu probabilmente Henri Bergson l’autore con cui si sentì più in sintonia. Poi, dal 1915 al pensionamento vi fu un decennio in cui gli autori (da criticare) diventarono Husserl, Kant e soprattutto i neokantiani, allora in grande voga nell’accademia giapponese. Una volta in pensione, Nishida cominciò a scrivere di getto le sue opere più originali, nelle quali cercò di sviluppare la cosiddetta “logica del luogo”. Passò attraverso un confronto con l’ontologia greca, soprattutto Platone e Aristotele, per poi trovare in Hegel un altro grande interlocutore, assieme a Marx, durante quello che viene definito il suo periodo “dialettico”. Nell’ultima fase del suo cammino filosofico fu forse Leibniz l’autore verso il quale fu più debitore.

    G.P.: Ci puoi parlare brevemente di quelle nozioni che, a tuo avviso, mostrano meglio la lettura e rielaborazione del pensiero occidentale da parte del filosofo giapponese?

    E.F.: La filosofia di Nishida si potrebbe dividere in due fasi: una prima, dal 1911 al 1925 circa, in cui Nishida cerca di esprimere il proprio pensiero impiegando concetti tipici della filosofia moderna: volontà, esperienza, soggetto e oggetto e così via. In questo caso la rielaborazione avviene soprattutto poiché Nishida impiega questi termini, per noi così familiari, tradotti in giapponese, dunque dopo averli sottoposti a quel lavoro di metamorfosi del senso che la traduzione sempre comporta. È però nella fase mediana e tarda del suo cammino di pensiero, tra il 1925 e il 1945, che Nishida comincia a creare una concettualità sua, che oltre a permettergli di esprimere in modo più efficace il suo pensiero, rende più chiara la sua differenza rispetto agli autori amati e studiati. Ad esempio, si potrebbe considerare la concezione della coscienza sviluppata da Nishida verso la fine degli anni Venti, in cui questa non è più colta come attività, come “Io penso”, quanto piuttosto come un “luogo” entro cui hanno appunto luogo gli atti della volontà, del pensiero, del giudizio e così via. Un luogo, però, che non è qualcosa di sostanziale, quanto piuttosto mu 無, qualcosa che si potrebbe provare a tradurre come “nulla”, o – forse un po’ alla Heidegger – come “nulleggiare”. È questo mu che “lascia essere” la coscienza soggettiva stessa e i fenomeni oggettivi che la coscienza conosce. È chiaro che il riferimento è qui al “nulla” orientale, taoista o buddhista zen, solo che in Nishida mu diventa un concetto a partire da cui cercare di sviluppare una logica alternativa a quelle aristoteliche, kantiane o hegeliane, una logica di un logos non indoeuropeo come quello giapponese.

    G.P.: Una parola chiave per entrare nel pensiero di Nishida sembra essere quella di traduzione, dal momento questi ha “innestato” nella lingua giapponese dei concetti nuovi. Come concepisci il tuo lavoro di traduzione dei suoi scritti?

    E.F.: La cosa mi ha posto e mi pone dinnanzi a difficoltà diverse rispetto a quelle di un testo in inglese o in tedesco. Non solo riguardo alla terminologia, al fatto cioè di imbattersi in neologismi inventati da Nishida, o in parole che non possiedono un significato facilmente assimilabile nella resa italiana (ad esempio l’ideogramma soku 即, uno dei termini chiave del pensiero buddhista e della dialettica del Nishida medio e tardo, che indica l’identità in quanto differenza, l’identità in quanto contraddittorietà irriducibile a identità, una sorta di frattura o di scarto al cuore stesso dell’identità). Ci sono anche altri problemi, che vanno al di là delle difficoltà terminologiche. Innanzitutto, la lingua giapponese non fa distinzione tra singolare e plurale, per cui ogni volta il traduttore è costretto a interpretare: si sta parlando dell’ente o degli enti? Della cosa o delle cose? Poi c’è l’aspetto “visuale” degli ideogrammi, il fatto che il senso sia veicolato da un elemento visivo che prescinde dal suono, e che dunque inevitabilmente si perde nella traduzione in simboli alfabetici. Infine, il pericolo forse più grande, quello della “ri-traduzione” in termini occidentali di termini in origine occidentali, un’operazione che porta con sé il rischio di appiattire la specificità di un pensiero filosofico “in giapponese” come quello nishidiano. Ad esempio, al centro di Uno studio sul bene è posto un concetto che è la traduzione di un termine jamesiano, pure experience, o del suo equivalente tedesco, reine Erfahrung, che Nishida ritrova ad esempio in Mach o Avenarius. Si tratta del termine junsui keiken, 純粋経験. Experience, come esperienza, deriva dal greco peirao che rimanda allo “sperimentare”, al “tentare”, a differenza del tedesco Erfahrung che contiene piuttosto l’idea del “viaggio”, del “percorso”, Fahrt. Nishida, tuttavia, intende l’esperienza come keiken, che è sì la traduzione di experience o Erfahrung, ma significa qualcosa che ha a che fare con delle “tracce”, con dei “segni” (験, shirushi), e con il divenire temporale, il trascorrere del tempo (経つ, tatsu), dunque con una sorta di tracciamento o di ritmo nel divenire, che coincide con l’aprirsi stesso del mondo, ovvero con l’esperienza corporea del reale così com’è. E tuttavia, nel momento in cui devo tradurre junsui keiken in italiano, non posso che tradurlo con esperienza pura, cioè sono costretto ad espormi al rischio di occultare la peculiarità del termine giapponese riportandolo inevitabilmente al suo ben noto punto di partenza occidentale. È come se cercando di introdurre nell’italiano qualcosa che è il frutto di una “fuoriuscita” dall’alveo delle lingue di occidentali, la lingua di partenza insorgesse per recuperare la propria identità minacciata, cancellando la differenza introdotta dalla traduzione in giapponese proprio nel momento in cui a quella differenza si vorrebbe dare valore rispettandola in quanto tale. È forte l’impressione di essere messi in scacco da una sorta di essenziale e inaggirabile “logica” coloniale insita al cuore stesso della filosofia “occidentale”, quasi che la filosofia fosse inevitabilmente uno dei tanti modi di manifestazione della volontà di dominio europea. Come traduttore, il mio obiettivo sarebbe quello di salvaguardare il più possibile l’alterità del pensiero nishidiano senza danneggiare eccessivamente la leggibilità dell’italiano, segnalando nelle note o a parte in glossarî il significato dei termini, analizzando il senso degli ideogrammi e tentando di rendere percepibile l’elemento straniante insito nella traduzione della filosofia occidentale “in giapponese” e della filosofia giapponese “in italiano”. A suo modo, un tentativo di rendere il pensiero qualcosa all’altezza dei compiti del nostro tempo, al di là di troppo schematiche e forse obsolete categorie come quelle di Oriente e Occidente.


    www.lavoroculturale.org/kitaro-nis...a-pulsoni/2021/

    Edited by Sun Yun - 14/11/2021, 07:31
     
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    [...]Come va? Il tuo tedesco è migliorato? Oggi ti ho spedito il numero di giugno di Tetsugaku Kenkyū. Questo saggio non è ancora klar, ma io cerco di definire logicamente la coscienza invertendo la definizione aristotelica di Substanz – «ciò che diventa soggetto e non diventa predicato» – in «ciò che diventa predicato e non diventa soggetto». Inoltre la trascendenza del soggetto del giudizio procede infinitamente nella direzione del particolare, e al tempo stesso la trascendenza del predicato procede infinitamente nella direzione dell’universale. Questo è qualcosa di infinitamente universale che essendo nulla contiene l’essere, qualcosa che rispecchia in modo assoluto, in questo modo cerco di vedere ciò che essendo Materie include in sé das Eine di Plotin. Così quando il predicato, trascendendo se stesso nella direzione dell’infinitamente grande, ha perso se stesso, ciò che è soggetto del giudizio raggiunge l’apice del particolare e diventa qualcosa che intuisce se stesso (ciascuno qualcosa di spontaneamente agente). Ma in questo saggio non sono riuscito a scrivere queste cose in dettaglio. Ho la sensazione però di aver raggiunto con esso la mia prospettiva ultima. D’ora in poi, stando in essa, vorrei provare a reconstruct tutto ciò che ho pensato fino ad ora[...] Esperienza pura e autoconsapevolezza Il primo tentativo di dare voce a ciò che non ha voce era stato compiuto in Uno studio sul bene. Il concetto cui Nishida si era affidato in quell’occasione era quello di «esperienza pura» o «immediata» che aveva ripreso, oltre che dalla reine Erfahrung di Mach e Avenarius, soprattutto dalla pure experience di William James. L’intenzione di Nishida era di creare un sistema filosofico che lo mettesse in grado di «spiegare tutto considerando come unica realtà l’esperienza pura», intendendo qui l’esperienza non in quanto l’esperienza di qualcuno, ma come una sorta di originario esperire in atto rispetto al quale la soggettività individuale viene ad essere a un fenomeno secondario e derivato. Nella Prefazione del 1911 Nishida scrive: «Da molto tempo andavo pensando di provare a spiegare tutto considerando come unica realtà l’esperienza pura. All’inizio avevo letto molti autori tra cui Mach, ma non riuscivo ad esserne soddisfatto. Nel frattempo pensavo che fosse possibile uscire dal solipsismo a partire dall’idea secondo cui non è che essendoci il singolo individuo c’è l’esperienza, ma essendoci l’esperienza c’è il singolo individuo e l’esperienza è più fondamentale delle distinzioni individuali.» . Uno studio sul bene rappresenta perciò il tentativo sistematico di una filosofia pancoscienzialista che si radica nell’immediatezza di un esperire anteriore alla distinzione di esperente ed esperito, coglibile innanzitutto nell’«attimo in cui si vedono colori e si sentono suoni», non solo senza «il pensiero che questi suoni e colori siano dovuti all’azione di oggetti esterni o che sia l’io a percepirli», ma addirittura prima che si aggiunga il giudizio «su cosa siano questi colori e questi suoni». A partire da un simile puro esperire Nishida aveva cercato di rendere conto di ogni atto della coscienza, del pensiero come della volontà, della percezione, della memoria o dell’intuizione intellettuale, in modo da poter delineare un’ontologia, un’etica e una filosofia della religione che si radicassero nell’esperienza immediata estremo-orientale. A dispetto del successo di pubblico, i punti deboli di Uno studio sul bene furono subito evidenti. Nishida stesso, molti anni dopo, riconobbe che il suo primo punto di partenza, l’esperienza pura, era un concetto che «a livello specialistico … presentava molti difetti». Poco dopo l’uscita di Uno studio sul bene Takahashi Satomi aveva messo in luce con chiarezza la fragilità del primo testo nishidiano, inducendo l’autore ad un primo ripensamento radicale che aveva trovato espressione nella seconda importante opera di Nishida, Intuizione e riflessione nell’autoconsapevolezza del 1917. Uno dei principali limiti imputabili a Uno studio sul bene veniva individuato nel fatto che il concetto di esperienza pura, esteso ben oltre i limiti della psicologia jamesiana, non permetteva di chiarire la relazione in cui vengono a trovarsi, all’interno dell’unica e onnicomprensiva esperienza, attività spirituali apparentemente opposte e inconciliabili come l’intuizione immediata e la riflessione propria del pensiero. La soluzione di introdurre tra i vari atti della coscienza delle «differenze di grado» era apparsa subito assai fragile e poco convincente, rendendo evidente la necessità di una nuova impostazione del problema, soprattutto alla luce di un confronto serrato con il pensiero neokantiano. Il primo passo in questa direzione venne compiuto nell’opera successiva a Uno studio sul bene, Pensiero ed esperienza vissuta del 1914, al cui interno compare il saggio La comprensione della logica e la comprensione della matematica nel quale Nishida si appropria tramite Royce del concetto di «insieme infinito» di Dedekind. Secondo Dedekind «Un sistema S si dice infinito se è simile a una sua parte propria» . Seguendo Dedekind e Royce, Nishida fa propria l’idea di un «sistema autorappresentativo» affermando che «quando un certo sistema è in grado di rispecchiare se stesso in se stesso, allora è infinito». «Ma allora che cos’è questo sistema autorappresentativo? Hegel ha dato l’«io» come esempio di Fürsichsein. Allo stesso modo anche Dedekind dice che «il proprio mondo di pensiero, che può diventare oggetto del proprio pensiero, è infinito», cioè il pensiero, rispetto a cui qualcosa può diventare oggetto del pensiero, a sua volta appartiene al mondo del pensiero. Nella nostra coscienza riflessiva noi possiamo rendere oggetto del nostro pensiero il fatto di rendere sé oggetto del pensiero. È come un’immagine [kage] che si rispecchia tra due specchi o, come dice Royce, è come fare la carta geografica completa dell’Inghilterra stando in Inghilterra, significa procedere all’infinito». Questa prima intuizione venne sviluppata nell’opera successiva, Intuizione e riflessione nell’autoconsapevolezza, fino a cristallizarsi nel concetto di «autoconsapevolezza» [jikaku, ⥄ⷡ] grazie al quale Nishida cerca di riarticolare il rapporto tra l’intuizione e la riflessione su cui si era arenata la sua prima opera. Rispetto al saggio del libro del 1914, l’autoconsapevolezza del 1917 viene presentata da Nishida innanziutto come una ripresa della Tathandlung di Fichte. Ma nonostante il riferimento a Fichte, Nishida è risoluto nel non impiegare il termine «autocoscienza» [jikoishiki, ⥄ 己 意 ⼂ ] per il suo nuovo concetto. Ciò che marca la differenza tra jikoishiki e jikaku in giapponese è innanzitutto la coloritura buddhista che si coglie nel secondo termine, mentre il primo appare come la mera traduzione in giapponese del termine occidentale «autocoscienza» . Ma al di là della scelta puramente lessicale, che tuttavia in Nishida permane netta all’interno di tutta la sua opera, è piuttosto nell’espressione concettuale dell’autoconsapevolezza che si riscontra un elemento di originalità che per certi aspetti sembra preparare o almeno prefigurare l’avvento del concetto di luogo. L’autoconsapevolezza è infatti definita da Nishida nei suoi testi con formule quali «il sé vede il sé entro sé», o «il sé rispecchia sé entro sé» . Nell’autoconsapevolezza il soggetto riflettendo (rispecchiando, vedendo) se stesso pone l’oggetto e così facendo modifica se stesso, inducendo un movimento infinito di uscita e ritorno, egressus e regressus, intuizione e riflessione, all’interno del quale Nishida pensa di realizzare una sorta di fusione tra la Tathandlung fichtiana e la durata pura di Bergson giovandosi di una struttura logica come quella dell’insieme infinito di Dedekind. La peculiarità dell’autoconsapevolezza nishidiana tuttavia non consiste semplicemente nel fatto che il sé rispecchia o vede sé, quanto piuttosto l’elemento decisivo è che il rispecchiamento del sé avviene «entro sé». «Il sé rispecchia sé entro sé. … Di solito si pensa che l’autoconsapevolezza sia semplicemente che conoscente e conosciuto sono uno, ma ciò che io chiamo autoconsapevolezza credo sia conoscere sé entro sé. Se dico semplicemente «soggetto e oggetto sono uno», forse si può pensare qualcosa come l’intuizione preriflessiva, ma affinché si costituisca la coscienza autoconsapevole deve essere aggiunto l’«entro sé». Autoconsapevolezza significa che l’io che conosce, l’io conosciuto e il luogo in cui l’io conosce l’io, sono uno. … L’essenza della nostra autoconsapevolezza deve essere che ciò che ha trasceso l’io, ciò che contiene in sé l’io, è l’io stesso» . Nel testo del 1917 l’autoconsapevolezza permette dunque a Nishida di delineare l’attività della coscienza come un processo dinamico infinito riconducibile in ultima istanza ad una «volontà assolutamente libera». Tutto il primo pensiero di Nishida si connota infatti come un pancoscienzialismo volontarista in cui l’apice dell’attività della coscienza è sempre individuato nella volontà che viene interpretata come «atto di atti», «a priori di a priori», «punto culminante» dell’attività della coscienza. In questo modo Nishida cercava di dare soluzione a quello che nel 1927 definirà il «problema trascurato della coscienza», ovvero il problema di cogliere concettualmente la «coscienza cosciente» in atto in quanto tale. In Intuizione e riflessione nell’autoconsapevolzza così come in Uno studio sul bene al vertice dell’unificazione dell’attività della coscienza resta infatti sempre un punto ultimo e inoggettivabile. Alla fine del paragrafo dedicato alla volontà Nishida scrive: «Infine vi sono alcuni che distinguono la volontà dalla ragione dicendo che la volontà è cieca. Ma il reale concreto per noi immediato, qualunque cosa sia, non lo si può spiegare … Spiegare significa poter includere qualcosa all’interno di un sistema. Ciò che diventa il perno dell’unificazione non lo si può spiegare e per quanto lo riguarda siamo in ogni caso ciechi» . Nel testo del 1917 Nishida cerca di render conto di questo punto cieco impiegando concetti di Cohen, quali quelli di «limite» o di «punto creativo». Ma proprio l’assunzione di concetti propri del pensiero moderno occidentale, così tipica della prima produzione nishidiana, portava con sé inevitabilmente anche l’assunzione di una volontà assoluta ultima e inarticolabile in quanto sfondo metafisico del pensiero, un esito questo che però non soddisfaceva Nishida, anzi, che gli appariva come un fallimentare «capitolare nel campo nemico del misticismo» . Per Nishida una metafisica della volontà non si dimostrava in grado di cogliere in modo appropriato l’apertura originaria immediata del reale che sta all’origine della filosofia nishidiana.



    LUOGO
    NISHIDA KITARO; FONGARO E. (CURATORE); GHILARDI M. (CURATORE)

    B07XBTVCSK

    Edited by Sun Yun - 14/11/2021, 07:51
     
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    Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione.
    Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti. [...]
    Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale[...]

    https://buddhismoitalia.forumcommunity.net/?t=58968963
     
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  4. Davide S. C.
     
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    Grazie mille! Qui c’è molto da riflettere….
     
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    Il termine satori e' un termine femminile derivato dalla sakura, cioe' quel istante dell'osservazione della fioritura, ma ci vuole propriamente anche un po' di hanami!
     
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