Il vuoto mentale nelle psicologie tradizionali e l’"attività psichica indifferenziata" in Sante De Sanctis

Di Riccardo Venturini

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    Il vuoto mentale nelle psicologie tradizionali e l’"attività psichica indifferenziata" in Sante De Sanctis



    Di Riccardo Venturini

    Fonte: https://culturabuddhista.weebly.com/insegn...to-mentale.html

    Il tema del vuoto mentale (sia nel suo aspetto di attenzione vuota che in quello di attenzione al vuoto), a fronte della grande rilevanza che ha nelle psicologie incorporate nelle dottrine di vita delle tradizioni spirituali dell’Oriente, ha ricevuto nella psicologia scientifica occidentale un’assai scarsa considerazione. Questo fatto trova la sua più probabile spiegazione nell’essersi la psicologia "scientifica" sviluppata all’insegna dello studio della "prestazione", in un contesto che non annette grande rilievo ai momenti "quiescenti" della mente. Tra i meriti da riconoscere a S. De Sanctis ritengo vada quindi ascritto anche quello di essere stato tra i pochissimi a essersi occupato di questo argomento.
    Mi spinge alla rievocazione di questo aspetto, da alcuni forse considerato marginale, dell’opera di De Sanctis anche un motivo di ordine personale: l’essermi ormai da vent’anni interessato allo studio degli stati modificati di coscienza e delle psicologie tradizionali orientali, mi ha fatto sentire il desiderio di quasi raccogliere in eredità l’argomento del vuoto mentale da chi, nell’anno 1903 aveva, per la prima volta nella università italiana, cominciato a insegnare la Psicologia fisiologica, insegnamento interrotto dopo tre anni e che, riattivato nel 1971 (nel neo-istituito Corso di laurea in Psicologia dell’Università di Roma "La Sapienza"), ebbi l’onore di vedermi affidato. In più, De Sanctis era stato chiamato per assumere questo incarico da L. Luciani nell’Istituto di Fisiologia umana, quello stesso Istituto da cui la mia attività scientifica ha preso le mosse.
    Per affrontare il nostro argomento, la prima domanda a cui dobbiamo cercare di rispondere è: come si pone e come si sviluppa in De Sanctis questo interesse per il tema del vuoto mentale?
    Il contesto. – Nel suo ritratto autobiografico, scritto poco prima della morte, per la serie A History of Psychology in Autobiography (1936), De Sanctis parla dei suoi interessi per la psicologia religiosa, ricordando: i corsi tenuti negli anni tra il 1921 e il 1928; il contatto con A. Fogazzaro, uno degli scrittori italiani moderni tra i più sensibili e impegnati sui problemi spirituali e religiosi, a lui inviato dalla regina Margherita, che era a conoscenza dei suoi studi di psicologia della religione; la pubblicazione nel 1924 del volume su La conversione religiosa — da Freud considerata «opera pregevolissima, nella quale, fra l’altro, vengono utilizzate tutte le conoscenze della psicoanalisi» (1927, Opere, vol. X, p. 516). Quest’area era dunque ben presente tra i suoi studi1, ma il contesto in cui egli si era dedicato alle indagini sul vuoto mentale non era, contrariamente a quel che ci si sarebbe potuto aspettare, quello religioso, bensì quello dell’impegno per la costruzione di una psicologia scientifica, sottratta alle ipoteche della filosofia, da un lato, e del riduzionismo fisiologico, dall’altro. A tal fine, come per assicurare l’indipendenza del mondo psichico e della disciplina del suo studio, egli postulava l’esistenza di due energie di base, quella psichica e quella vitale o fisico-chimica-nervosa, due forze operanti insieme in tutti i fenomeni psichici, secondo un parallelismo connotato da una proporzionalità che segna un ritmo armonico tra pensiero e vita. Sempre nella sua autobiografia, il De Sanctis affermava:
    Particolare interesse ebbe nei miei studi la determinazione "sperimentale" di quella che chiamai l’"energia psichica pura" (dicevo "energia" sull’analogia delle energie cosmiche). Proclamai sempre d’ignorare la natura e la provenienza della forza che diciamo "psichica", esclusi il problema dal terreno psicologico, ma gli esperimenti mi misero, più di una volta, in presenza di una "esperienza psichica senza contenuto". Era una punta audace verso le spiegazioni più profonde, ma riconobbi sempre che si trattava di una spiegazione-limite. Tuttavia, l’ho ribadita, anche recentemente nella mia Psicofisiologia del sogno (Copenhagen, 1932), quando parlavo di subcosciente (diciamo pure "precosciente") indifferenziato a proposito di attività onirica del sonno profondo. Il mio concetto più volte esposto a difesa, di "energia psichica indifferenziata" (P. S., vol. I, p. 75 ss.) o situazione-base, veniva a incontrarsi con concetti analoghi esposti dai mistici e da vari psicologi e ormai provati sperimentalmente. Così il pure feeling degli autori inglesi, la Bewusstheit di Marbre, Ach, ecc., lo "stato emotivo puro" di V. Benussi, trovarono in me un sostenitore convinto per esperienze dirette (1936, p. 109).
    Che tale energia agisse in parallelo alla energia vitale era per De Sanctis cosa tanto certa da fargli affermare che anche
    là dove una proporzione non sia dimostrabile visibilmente, cioè per la via del metabolismo, per la via respiratoria e vasale o per la via morfologica, fra fatto psichico e funzionamento cerebrale, esiste tuttavia, e di certo, proporzione tra fatto psichico considerato come manifestazione di forza o energia psichica e fra energia nervosa o vitale. Questa forma di parallelismo (del resto non matematico) si giustifica sostanzialmente col fatto che nel fenomenismo umano ogni manifestazione di attività psichica è associata ad attività vitale e rispettivamente nervosa (1929, p. 23).
    Servendosi dei concetti privilegiati dall’epistemologia dell’epoca, egli andava applicando termini tratti dalla fisica, come energia, tensione, potenziale, etc., alla vita psichica, ma, secondo R. Appicciafuoco, autore di un ampio studio sulla psicologia di De Sanctis, egli
    non intende certo materializzare la psiche, come hanno fatto molti fisiologi e psicologo-filosofi; ma se ne serve per analogia, per facilitare la comprensione e il lavoro di ricerca, senza mai dimenticare che l’energia psichica è un’attività sui generis, autonoma, avente un significato proprio (1946, p. 49).
    Come lo stesso De Sanctis precisava,
    adoperando le stesse nomenclature di energia psichica, tensione, potenziale psichico, ecc. non rinunziamo al concetto che il psichico umano sia una attività sui generis, sulla cui essenza ed origine la scienza psicologica è e deve essere completamente agnostica, e di cui non può sapere altro che questo: che essa attività opera di conserva con quella energia (che ha pure le sue grandi incognite) che si denomina energia fisico-chimica (o biologica o vitale, e rispettivamente, nervosa) senza perciò che l’una si confonda con l’altra com’è nelle abitudini mentali, di non pochi nevrologi, i quali credono di spiegare il psichico con la condensazione di potenziale da parte delle cellule cerebrali ad assone corto, con le correnti elettriche nel tessuto nervoso, con la soluzione e precipitazione delle sostanze colloidali… e simili trovate. Se il psicologo ignora, sa per lui il filosofo; al quale tutto è chiaro, quantunque la chiarezza o la verità per l’un filosofo possa essere l’oscurità o l’errore per l’altro. Malinconica constatazione! (1924, 95).
    È evidente, in questa dichiarazione di agnosticismo, l’obiettivo di rimanere equidistante da posizioni spiritualiste e da posizioni materialiste, pur non rinunciando a collocarsi all’interno del campo della terminologia e di una metodologia, per quanto possibile, scientifica. Una volta introdotto il concetto di una energia psichica distinta dall’energia vitale, De Sanctis affermava:
    Ora dobbiamo vedere se per avventura l’esperienza non ci offra qualche argomento positivo per sostegno al nostro postulato. È possibile sperimentare l’attività o energia psichica come semplicemente tale, e cioè al di qua e al di là di particolari contenuti coscienti e soltanto in riferimento a noi stessi e cioè cosciente? (P. S., p. 71).
    L’ipotesi era che
    l’uomo, prima di venire alla luce, non sia che un centro di forza, un focolaio di energia psichica, un’attività indistinta "indifferenziata"
    e che alla nascita
    sùbito comincia il differenziamento di un’attività ch’era, per dir così, amorfa (P. S., p. 91).
    Il differenziarsi dell’attività procederebbe lungo un cammino di cui De Sanctis ha cercato di delineare i livelli, secondo un’evoluzione qualificata come "spontanea" perché mossa da un dinamismo interno, teso verso il raggiungimento di determinati fini:
    l’attività è detta spontanea, perché essa anche nel neonato, in fin dei conti, è finalistica (P. S., p. 90).
    Nel progressivo differenziamento dell’energia, che si realizza con il contributo dell’ambiente, si ha il passaggio dal genotipo al fenotipo, in un percorso in cui si individuano il «livello rappresentativo-affettivo; del logico, del discorsivo, del socializzato, ecc.» (P. S., p. 71). De Sanctis riconosceva che
    l’associata energia fisico-chimica, nelle varie condizioni della coscienza e della subcoscienza, entra ed opera in varia misura,
    ma ciò non scalfiva la sua fede parallelistica e proporzionalistica, per cui riteneva di poter dire
    che le curve delle due energie — la psichica e la vitale (il termine è qui assunto in senso puramente fisiologico) — ora decorrono con un certo parallelismo, ed ora no, pur mantenendo sempre fra loro quella proporzione magnifica che forma la divina armonia fra la vita e il pensiero (1924, p. 96).
    De Sanctis veniva a porsi il problema di come poter studiare l’energia psichica quasi allo stato puro e orientava le indagini verso un ipotetico livello minimo, la cosiddetta attività psichica indifferenziata, una sorta di "metabolismo basale" psichico, quale anche altri, in anni recenti, hanno tentato di realizzare con gli esperimenti di sensory deprivation o "stimolazione ridotta" (Suedfeld, 1975). In tal modo De Sanctis pensava di poter offrire una dimostrazione della indipendenza e del parallelismo tra le due postulate forme di energia. Ma come avrebbe egli potuto offrire una evidenza sperimentale di questo "grado zero" dell’attività psichica? La via del parallelismo non era molto praticabile, poiché va ricordato che si era in anni precedenti all’affermarsi dell’elettroencefalografia e dello studio elettrofisiologico dei neuroni isolati. Ancora oggi possiamo domandarci in che cosa andrebbe identificata l’attività minima del sistema nervoso: nei ritmi cerebrali a più bassa frequenza? Nell’attività "spontanea" che si rileva da singole unità nervose? E la stessa pretesa "autoritmicità" dei neuroni non andrà in ogni caso ricondotta alla presenza di stimolazioni sia pur minimali? E cosa può significare "spontaneo"? Come, anni fa, autorevolmente osservava W. Gray Walter,
    in un sistema in cui azione e reazione sono interconnesse, un’attività una volta iniziata tenderà a persistere, ma la causa prima può essere oscura. L’attività "spontanea è infatti un concetto difficile da da definire o illustrare in pratica e la situazione non è semplificata dalla sostituzione con i termini "endogeno", "autogeno" o "autoctono", poiché in tutte queste parole è implicita l’assunzione che il comportamento del sistema dipende non dal suo stato precedente ma in qualche modo da se stesso, come se ci fosse un elemento di scelta o libera volontà (p. 270).
    Lasciando da parte la difficile individuazione di un livello minimo di attività sul versante neurofisiologico, non certo più facile si presentava la ricerca sul piano dell’attività psichica. Non essendo evidentemente possibile una regressione a livello del primo, originario differenziarsi dell’attività psichica né a quello del sentimento puro o del puro pensiero, De Sanctis pensò di poter individuare un «io empirico "ridotto"» (P. S., p. 80), un livello di «coscienza ridotta o poverissima di contenuti» (P. S., p. 92), in cui
    l’Io-attivo può venire sperimentato, per quanto oscuramente, distinto dai contenuti: questo è il dato. Si può incontrarsi difatti in una situazione psichica ancora più semplice e antecedente che non sia la chiara coscienza di sé, come individuo biopsichico, ma che, sebbene senza espliciti contenuti, implica la persona che l’esperimenta, cioè l’Io (P. S., p. 73).
    È questo dunque il percorso che, partendo da una premessa filosofica che ritengo si possa considerare fuorviante (quella del parallelismo nella forma di proporzionalismo psicofisico), condusse De Sanctis allo studio dell’insolito argomento del vuoto mentale.
    Gli esperimenti. – Vediamo come De Sanctis procedeva per cogliere sperimentalmente, nel vissuto dei soggetti, la presunta attività indifferenziata ove, come abbiamo detto, riteneva sì presente l’io, ma con una coscienza senza contenuti. Al fine di realizzare la desiderata modificazione dell’attenzione in direzione dell’eliminazione dei contenuti mentali, De Sanctis pensò di fornire ai soggetti due diverse sequenze di istruzioni, sequenze sulla cui diversità egli non fornisce giustificazione, inducendoci pertanto a supporre che esse fossero da lui ritenute equivalenti. Nella prima serie, le istruzioni erano:
    •concentratevi in perfetto silenzio… •se dopo un poco sentirete dentro di voi un movimento d’immagini, di sensazioni, pensieri e sentimenti e specialmente di parole, attendete… •ma poi procurate d’isolarvi da quelle immagini e da quelle parole risonanti interiormente… Fate il "vuoto" nella vostra mente… •ci riuscite? Se non riuscite subito, provate e riprovate. Dopo vari inutili tentativi, alla fine, lasciate il vostro raccoglimento; l’esperienza è finita. Ma subito scriverete come e perché non siete riusciti a ottenere il "vuoto" nella vostra mente. Se invece alla fine riuscite, cogliete quell’"attimo" di "vuoto"… Lasciate il vostro raccoglimento e scrivete come e perché il "vuoto" si è fatto; e descrivete in che consiste l’attimo di vuoto, come meglio potete; anzi basta che l’esprimiate con una sola parola e con un’analogia; e non riuscendo, basta che scriviate di non potervi esprimere. [Veniva raccomandato in particolare di descrivere se egli sentisse sé stesso vivo, presente e operante nell’assenza di ogni contenuto] (P. S., p. 73 s.).
    Nella seconda serie, invece, l’istruzione era:
    •concentratevi sopra una immagine visiva, per esempio un triangolo e aspettate che svanisca e che quindi sia fatto il vuoto nella vostra mente. Se riuscite lasciate il vostro raccoglimento e subito scrivete ciò che sapete di quell’attimo di vuoto mentale (P. S., p. 74 s.).
    Ottenuta dai soggetti una testimonianza scritta spontanea sul loro vissuto, essi venivano osservati dal punto di vista fisiologico e si passava alla introspezione provocata, raccogliendo anche informazioni sulle loro abitudini mentali, etc. Come si può vedere, le due situazioni prevedevano: la prima, una concentrazione che, osservate immagini, sentimenti e parole presenti alla coscienza, prende poi le distanze da essi, realizzando il vuoto mentale attraverso il disimpegno; la seconda, una concentrazione su di una immagine intenzionalmente resa presente e poi soppressa, con la conseguente produzione di un vuoto di coscienza. A detta di De Sanctis,
    È estremamente difficile farsi un’idea di che cosa si sperimenti nel tempuscolo di vuoto, che abbiamo ottenuto più volte in diversi soggetti indipendentemente da qualsiasi suggestione. Ciò nonostante è certo che si può avere — al di fuori di qualsisi suggestione — una esperienza quantomai semplice, cioè l’esperienza di una nostra attività interna. Tutte le volte che abbiamo richiesto al soggetto se in quell’attimo fosse un semi-sonno o un coma, la risposta fu sempre negativa; il soggetto si sentiva presente, cioè si affermava. In conclusione, ciò che viene sperimentato è un’attività propria, una specie di attività più o meno chiaramente o implicitamente autocosciente; non altro di meglio qualificato. La presenza del soggetto è indeterminatamente cosciente, appunto per mancanza di contenuti. Dunque l’attività indifferenziata è l’Io senza, ovvero con un minimo di contenuti. In breve è l’Io empirico, ma ridotto (P. S., p. 78).
    Ma, al di là di queste sperimentazioni e dei risultati abbastanza fragili, De Sanctis, secondo Appicciafuoco,
    per convalidare i risultati ottenuti, della cui solidità egli stesso doveva dubitare, e per eliminare l’accusa di suggestione o di prevenzione dottrinale, cerca con delle situazioni analoghe tratte dal misticismo e soprattutto dalla psicologia contemporanea, di giustificare le sue esperienze di energia psichica indifferenziata (p. 78 s.).
    Nell’ambito degli studi psicologici noti a De Sanctis, va ricordato in primo luogo Janet, il quale, pur avendo studiato il problema, era rimasto tuttavia sul versante di una interpretazione psicopatologica del fenomeno (attribuendolo a fatica, tensione e miseria psicologica). Egli cita ancora E. Souriot, T. Ribot, Marcel Foucault e, più vicino al suo pensiero, V. Benussi, che portava interessanti contributi alle indagini sull’attività psichica indifferenziata mediante l’induzione ipnotica di una «forma di sonno apparente […] caratterizzata dal fatto di essere priva di pensieri e di immagini», da lui detta pertanto "sonno base". Analogamente a De Sanctis, Benussi si domandava infatti:
    Primo: è possibile provocare uno stato emotivo, affettivo o pseudo-intellettivo privo di oggetto, di premesse e di elementi giustificativi di coscienza, e secondo: è possibile trovarne un’espressione somatica controllabile [… e] si può generare in forma oggettivamente attendibile, cioè controllabile, uno stato di coscienza costante dal quale partire tutte le volte che si voglia provocare una situazione emotiva isolata? (50).
    Benussi, ritendo il "raccoglimento" che S. Teresa chiamò "orazione di quiete" «chiaramente affine a quello stato particolare provocabile suggestivamente e chiamato sonno base» (ivi, p. 99), vedeva la possibilità di interpretare le esperienze mistiche come «innesti» in esso e affermava: «mi riservo di ritornare ampiamente su questo argomento in altra sede» (ivi, p. 100). Non risulta, tuttavia, che egli abbia potuto, nel breve tempo che lo separava dalla morte, approfondire ulteriormente l’argomento.
    Del vuoto come senso di vuoto, stato di stupore profondo, dissoluzione della coscienza, la psicopatologia ha ovviamente continuato a occuparsi e interessanti contributi ha offerto la prospettiva psicodinamica su vuoto, disillusione, solitudine patologica2 . Se queste indagini esulano ora dal nostro interesse, più pertinenti sono invece altri contributi che desidero qui ricordare perché possano essere meglio messe in luce e valorizzate le intuizioni anticipatorie di De Sanctis.
    J. H. Schultz, autore del fortunato metodo di modificazione di coscienza detto Training autogeno, illustra anch’egli le analogie con l’esperienza mistica, cercando di illustrare
    come attraverso un atteggiamento di abbandono passivo preparatorio si giunga ad un’esperienza interiore di liberazione che porta al vissuto mistico od estasico (1971, p. 495)
    e, riferendo osservazioni e teorizzazioni anche di altri autori scrive:
    a poco a poco l’attività discorsiva interiore si smorza, il fantastico gioco delle rappresentazioni concrete termina e nell’animo del contemplante si fa un completo silenzio. Il dolce e quieto stato d’animo che si era determinato con l’allontanarsi dagli affanni e dalle pressioni del mondo esteriore e dai tumultuosi conflitti del proprio animo, e col penetrare nella profondità dei significati e dei valori religiosi si trasforma in uno stato di vuoto e di solitudine (ivi, p. 496).
    Ancora, si è visto come la "ipnosi neutra profonda" (simile al vissuto ottenuto con la commutazione autogena del T.A., senza cioè particolari contenuti mentali e senza suggestioni) conduca a uno stato caratterizzato da:
    1) nessuna consapevolezza del corpo fisico; 2) nessuna consapevolezza di qualsiasi "cosa" o sensazione discreta, ma solamente la consapevolezza di un flusso di potenzialità; 3) nessuna consapevolezza del reale ambiente circostante […]; 4) una sensazione di essere al di là, fuori del tempo; 5) un senso dell’identità [personale del soggetto] che è mantenuta total¬mente in sospeso e l’identità che è semplicemente po¬tenzialità.
    Stati di questo tipo non sono stati molto trattati nella lettera¬tura scientifica occidentale, ma suonano simili alle descrizioni orientali della coscienza del Vuoto, un d-SoC [uno stato discreto di coscienza] nel quale si suppone che tempo, spazio e Io siano trascesi, lasciando la pura consapevolezza del niente primordiale dal quale deriva ogni creazione manifestata (Tart, 1977, p. 207 s.).
    Il significato di questi stati modificati di coscienza, per chi non si voglia aprire al loro possibile significato spirituale, consiste almeno nella capacità di indurre nell’organismo uno stato di calma e di benessere che consenta di ricondurre le varie funzioni a una condizione di corretto equilibrio omeostatico, tale da offrire, a soggetti in una condizione di squilibrio e distonia funzionale, una occasione di recupero e possibilmente di guarigione. Analogamente, la condizione di "stimolazione ridotta" è stata esplorata (Suedfeld e coll.) nel trattamento del tabagismo o di altri disturbi come le cefalee, l’ipertensione o l’insonnia. Ma è di particolare rilievo che De Sanctis, precorrendo lo studio degli stati modificati di coscienza nella configurazione attualmente assunta, vedesse il vuoto e l’esperienza mistica come prototipo di un’ampia gamma di vissuti:
    Non vi è psicologo — egli affermava — che non giudichi di grande interesse per la psicologia lo studio delle esperienze mistico-religiose. L’interesse è dato appunto da ciò che il contenuto di quelle esperienze si ripete in moltissime altre situazioni della coscienza umana al di fuori di qualsiasi preoccupazione religiosa o morale (P.S., p. 81).
    E aggiungeva,
    quasi tutte le anime mistiche in certi momenti del loro raccoglimento provano un’attività interna indifferenziata, cioè senza o quasi contenuti. I documenti sono così doviziosi che se ne può trarre grande utile per gli studi psicologici. Certamente in tutte o quasi le esperienze descritte dai mistici entra un elemento affettivo, per lo più il piacere, ma non di rado anche la pena (P.S., p. 81). […] Vi ha un’esperienza originale che fu ed è nota a moltissimi individui delle più diverse fedi e della più varia cultura; una esperienza comune a tutti, ma interpretata "poi" in vari modi a secondo dei suggerimenti che all’individuo (nel ripensare la propria esperienza) arrivano da precedenti convinzioni filosofiche o religiose, o da mistiche aspettazioni (p. 89).
    Tuttavia, queste lucide intuizioni non furono valorizzate fino a quando, passati vari decenni e sgombrato il campo da interpretazioni in chiave psicopatologica, il significato degli stati non ordinari di coscienza non venne (soprattutto per merito della psicologia transpersonale) pienamente riconosciuto, in una visione unitaria di fenomeni, in precedenza considerati tra loro del tutto irrelati.
    Col fine di una ricognizione tesa solo a confortare la sua ipotesi, De Sanctis volse la sua attenzione ad alcuni esponenti e forme di spiritualità della tradizione cristiana, nonché, sia pur evidentemente nella allora meno ricca disponibilità di testi ed esperienze, ad alcuni aspetti della spiritualità orientale, come lo yoga di Patañjali e lo zen.
    Vuoto e Nulla in Occidente. – Per quel che si riferisce alla esperienza dei mistici cristiani, De Sanctis, accostatosi a S. Giovanni Climaco, S. Teresa, S. Giovanni della Croce, S. Francesco di Sales…, concludeva:
    A me sembra che una situazione di coscienza senza gusti divini identica a quella da noi detta attività interna "indifferenziata" venga sperimentata correntemente dai grandi mistici. Soltanto non è facile ritrovarla nelle loro descrizioni, perché la teologia e la pratica della preghiera impongono loro inconsapevolmente l’interpretazione immediata. Sopprimete però ogni teologia nel mistico, sopprimete tutta la fraseologia tradizionale e apparirà in piena chiarezza la pura esperienza psicologica (P. S., p. 83).
    Procedendo a queste progressive arbitrarie sottrazioni di aspetti cognitivi ed emotivi, egli riteneva quindi di aver trovato… quel che già aveva stabilito di trovare: la "pura esperienza psicologica". Egli trascurava di vedere che le situazioni "pure" in psicologia (e non soltanto in psicologia) altro non sono che astrazioni, costrutti funzionali, come in questo caso, al sostegno di una tesi o di una ideologia. Solo grazie a questa semplificazione De Sanctis poteva pensare di trovare in Occidente materiale utile per i suoi fini. Infatti, anche una rapida riflessione sui diversi significati e sul rilievo che i concetti di Vuoto e di Nulla hanno assunto nella tradizione cristiana e nella cultura occidentale nel suo insieme ci mostra quanto sia problematico ricavare da esse indicazioni di facile utilizzazione psicologica. Va osservato, innanzitutto, che mentre la filosofia si è occupata prevalentemente del vuoto come problema oggettivo, cioè del Nulla come categoria metafisica (indipendentemente dall’uso che ne ha fatto il "nihilismo" in quanto corrente filosofica3) , del vuoto soggettivo o vuoto della coscienza si sono occupati, e preoccupati, prevalentemente i mistici e i teologi. Da un lato, il Nulla è per loro la primordiale inessenza con cui si confronta il Dio onnipossente che da essa trae il mondo delle creature, costituzionalmente intrise di quel niente che dal creatore appunto le rende radicalmente difformi, e cioè impermanenti e in continua metamorfosi; dall’altro, chi voglia avvicinarsi a Dio sembra necessario debba farlo attraverso un umile svuotamento della propria coscienza. Parlare del Creatore sulla base della conoscenza esperienziale, da Dionigi l’Areopagita a Meister Eckhart, a Pascal, a Silesius e a tutta la tradizione mistica, significherà doversi esprimere in termini apofatici o negativi, poiché nulla potrà dirsi affermativamente di un Assoluto avvertito come "totalmente altro": l’esperienza mistica, che incontra il vuoto nell’annihilatio della "rinuncia" o del "silenzio delle passioni", riconosce di non potersi esprimere nei termini di un linguaggio che risulta incommensurabile rispetto a «cose che ridire né sa né può chi di lassù discende» (Dante, Paradiso, I, vv. 5-6).
    D’altra parte, per i complessi motivi di rapporto tra dimensione mistica e dimensione devozionale, il vuoto è stato spesso visto con diffidenza da molti degli stessi teologi e mistici, a causa del pericolo di veder smarriti i contenuti tradizionalmente più noti e tranquillizzanti della tradizione. I timori della confusione del vuoto mentale col nulla, dello scivolamento dall’affermata indecifrabilità di Dio alla sua negazione, della perdita di comunicazione e amore nello smarrimento dell’anima, hanno spinto a rivolgere ammonimenti e a raccomandare cautele verso un tipo di pratica che porta alla quiete del vuoto della mente. S. Giovanni Climaco mette in guardia dai momenti di tregua nel perenne combattimento spirituale cui è chiamato l’asceta, perché nella apparente calma può annidarsi l’insidia del Maligno: «la volpe finge di dormire e il demonio finge d’esser puro: quella per ingannar le galline, questo per perdere le anime» (XV, 99). Così Ugo da Prato, detto Panziera, osserva che sarebbe somma ignoranza ritenere che «tenere la mente vôta da tutti i pensieri, se fusse possibile, sia più perfetta via d’andare alla contemplazione, che tenere nella mente l’umanità del dolce Figliuolo di Dio», analogamente a S. Teresa e a tanti altri. E si potrebbero ancora ricordare le lotte tra iconoduli e iconoclasti, il posto delle apparizioni, la presenza delle "figure" di angeli e di santi, la sfortunata storia del "quietismo", etc. Che tali ammonimenti fossero non del tutto ingiustificati, son venuti mostrando poi quei recenti studi che hanno messo in luce come, attraverso le celebrazioni delle Glorie del Niente e i discorsi In lode del Niente, Accademici e Libertini del Seicento andassero delineando una cosmogonia che si faceva «petizione, vistosamente eterodossa, del Non-Ente, non meno che polemica rinuncia al principio d’autorità» (C. Ossola, p. XX)4; cosa che la seguente storia della filosofia doveva così ampliamente sviluppare, unitamente alla consapevolezza dei limiti e condizionamenti della conoscenza, da suscitare ancor oggi quell’«apprensione per il relativismo e il nichilismo dilaganti» (Cappelletti, 1998, p. 28) che è stata una delle motivazionioni primarie della recente enciclica Fides et ratio. Tutti questi elementi hanno fatto sì che in Occidente non venisse elaborata una pedagogia e tanto meno una didattica del vuoto5 . Viceversa, in Oriente possiamo trovare vere e proprie mappe della mente e descrizioni di itinerari che forniscono esplicite tecniche per realizzare, forme di "misticismo sperimentale", in cui è ben precisato il posto che compete al vuoto mentale. De Sanctis cercò, come abbiamo detto, di individuare «traccia della nostra attività indifferenziata [anche] in altre esperienze che non sieno quelle del misticismo cristiano» (P. S., p. 83) e cioè in qualche aspetto della spiritualità orientale, che ora passiamo ad analizzare.
    Il vuoto mentale nelle psicologie tradizionali orientali. – Se confrontiamo le tecniche impiegate da De Sanctis con le trattazioni che del vuoto mentale offrono le psicologie tradizionali orientali, osserviamo che, per quanto attiene alle procedure, le situazioni da lui proposte non mostrano elementi di originalità, in quanto esse riprendono, in maniera più elementare, le due "classiche" metodologie del lasciar andare e della soppressione attiva.
    Dal punto di vista del significato, poi, De Sanctis, ancorato all’obiettivo della conferma della sua ipotesi energetica, non ha rivolto la giusta attenzione agli obiettivi a cui mirano insegnamenti che, attraverso un raffinato padroneggiamento mentale e la attualizzazione di stati di coscienza stabili (e non solo puntiformi!), rendono possibile un trascendimento del limitato io individuale e della soggettività biografica, indispensabile al fine di conseguire una vera autorealizzazione. Non va dimenticato che nelle psicologie tradizionali orientali le tecniche meditative sono offerte nell’ambito di complesse tecnologie del sé che adoperano le modificazioni di coscienza con finalità conoscitive di significato spirituale. Se, infatti, l’intelletto analitico e discorsivo è strumento idoneo alla conoscenza del mondo fenomenico, esso trova un invalicabile limite nella conoscenza del "totalmente altro" ("altro" perché fuori da ogni dualismo oppositivo). L’intuizione trascendentale, o sapienza, vuotando la mente e determinando un superamento dei confini dei sottosistemi psicologici nel loro assetto ordinario per realizzare una configurazione orientata in senso anegoico e transpersonale, sembra invece rendere la mente finalmente in grado di conoscere e identificarsi con la Realtà assoluta, che è ab-soluta proprio perché "vuota" di attribuzioni e contrapposizioni. Vediamo, dunque, come viene posto il problema del vuoto mentale in alcuni testi di significative tradizioni spirituali
    a. Cominciamo da un antico libro indiano di tantra-yoga, che raccoglie 112 insegnamenti, particolarmente indirizzati al controllo mentale: il Vijñanabhairava Tanta [Il tantra della coscienza divina], un testo kashmiro di incerta datazione, ma ben noto già nel VIII sec. d. C. In esso leggiamo:
    Nel momento in cui [il praticante] ha percezione o conoscenza di due oggetti o di due idee, dovrebbe simultaneamente eliminare le due percezioni o conoscenze e colta la distanza o l’intervallo tra i due dovrebbe mentalmente appoggiarsi ad esso. In quella distanza la Realtà risplenderà improvvisamente (v. 61).
    Ovvero
    Allorquando la coscienza del praticante abbandonata una cosa, ferma (niruddha), non procede verso un’altra cosa, si riposa nel punto di mezzo tra le due, attraverso di esso la realizzazione della pura coscienza è pienamente dispiegata in tutta la sua intensità (v. 62).
    Nel primo caso, che possiamo considerare una condizione "statica", l’attenzione è collocata nell’intervallo tra due oggetti mentali presenti; nel secondo, condizione "dinamica", l’attenzione si ferma senza far sorgere nella mente un altro pensiero o immagine. L’importante è comunque la consapevolezza che il punto di mezzo è il
    luogo dove sorge e perisce ogni fenomeno e, come tale, deve essere meditato dallo yogin che si sottrae così al vario e continuo fluttuare della propria mente (A. Sironi, p. 76).
    Il disimpegno dall’oggetto mentale è indicato nel v. seguente:
    O Dea, se [il praticante] applicato lo sguardo su un qualche oggetto, lo ritira e lentamente elimina la conoscenza di quell’oggetto unitamente a pensieri e impressioni di esso, egli dimorerà nella vacuità (v. 95).
    La stessa contemplazione di un oggetto particolare, per un gioco di figura/sfondo, diviene occasione di contemplazione della vacuità:
    Allorquando si percepisce un oggetto particolare, si afferma la vacuità di tutti gli altri oggetti. Contemplando questa vacuità con mente libera da tutti i pensieri, allora anche se il particolare oggetto sarà ancora conosciuto o percepito, il praticante trova la quiete (v. 122).
    Come esempio della tecnica di soppressione, valga il v. seguente:
    Un praticante dovrebbe proiettare lo sguardo nello spazio vuoto all’interno di un vaso o di un altro oggetto facendo astrazione dalle sue pareti. La sua mente sarà in un momento assorbita nello spazio vuoto (all’interno del vaso). Quando la sua mente è assorbita in quello spazio vuoto egli dovrebbe immaginare che la sua mente sia assorbita in un vuoto totale. Egli realizzerà allora la sua identificazione col Supremo (v. 59).
    Infine, ecco sottolineato il valore trasformativo di queste pratiche:
    Quando il praticante contempla con mente immobile e libera da tutte le opposizioni [categoriali] l’insieme del suo corpo o l’intero universo come essenziati di coscienza, allora esperisce il Supremo Risveglio (v. 63).
    Poiché la nostra condotta è ordinariamente automatica e inconsapevole, costituiscono importanti occasioni di "risveglio" o i comandi di stop intenzionalmente dati dall’esterno in contesti di pratica trasformativa o gli inattesi casi della vita che ci "sorprendono" perché ci trovano impreparati di fronte agli "imprevisti". In entrambi i casi si verifica uno "sbilanciamento" mentale che «volge all’interno» e porta verso il centro l’energia di attenzione-consapevolezza, «in un vuoto, che trascende tutte le dualità» e frammentazioni. Nel Vijñanabhairava leggiamo in proposito:
    Quando qualche organo di senso è ostacolato nella sua funzione da una causa esterna o in modo naturale o da una disposizione intenzionale, allora il praticante si volge all’interno, la sua mente è assorbita in un vuoto che trascende tutte le dualità e, proprio lì, il suo Sé essenziale risplende (v. 89).
    «Solo allora», come scrive Rajneesh commentando questo verso, «tu sei in contatto con il Cosmico, la sorgente, l’infinito […] e l’Essere che è indiviso e invisibile, apparirà per la prima volta» (p. 26).
    Con lo stesso intento, G. I. Gurdjieff aveva integrato la pratica dello stop nel suo insegnamento, proponendola in svariate circostanze, al fine di infrangere consolidati automatismi comportamentali.
    Un uomo sta per sedersi o sta per camminare o lavorare. Di colpo, sente il segnale e immediatamente il movimento iniziato viene interrotto da questo ‘stop’. Il suo corpo si immobilizza, si blocca in pieno passaggio da una posa all’altra, in una posizione nella quale egli non si arresta mai nella vita ordinaria. Sentendosi in questo stato, in questa posa insolita, l’uomo senza volerlo guarda sé stesso sotto angoli nuovi, si osserva in un modo nuovo, è in grado di pensare, di sentire in modo nuovo, di conoscere sé stesso in modo nuovo (Ouspensky, p. 390).
    Nello zen alcune esperienze (un suono, un gesto del maestro, lo "spiazzamento" dell’intelletto che viene confrontato con un problema insolubile), sono spesso connesse, nei racconti di talune illuminazioni improvvise, al repentino cambiamento dello stato di coscienza, che viene ad aprirsi improvvisamente a una comprensione nuova del Reale.
    Anche ai nostri giorni, un poeta come E. Montale ci dà conto, in una delle sue composizioni "metafisiche"6 , della rivelazione prodotta da una improvvisa esperienza di vuoto, espressa con l’immagine del voltarsi repentinamente all’indietro, verso ciò che, non visto, non esiste:
    Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
    arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
    il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
    Di me, con un terrore di ubriaco.
    Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
    alberi case colli per l’inganno consueto.
    Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
    tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto (1991, p. 42).
    Ricordiamo, infine, che, sia pur banalizzato, il motivo dell’arresto viene ripreso anche in alcuni giochi infantili.
    b. Se il Vijñanabhairava non risulta fosse conosciuto da De Sanctis, un altro classico dello yoga, gli Yogasutra di Patañjali (anche questo è un testo di incerta datazione, ma risalente ai primi secoli dell’era volgare), viene da lui citato, ma con il seguente commento un po’ generico e impreciso:
    si tratta di 195 massime, redatte fra il 650 e l’850 dell’era nostra, al fine di sopprimere l’attività dello spirito ed entrare in stato di libertà. Per raggiungere tal fine è necessaria la concentrazione su un oggetto qualunque; in principio l’individuo resta cosciente, ma poi gli oggetti spariscono e restano impressioni subcoscienti. Infine il yoga perde la coscienza (P. S., p. 83 s.).
    La definizione stessa di yoga che questo libro ci offre, come impegno a realizzare la «soppressione delle modificazioni della mente» (I, 2), conduce immediatamente alla tematica del vuoto mentale e all’obiettivo di stabilizzare tale condizione. Dal punto di vista della tecnica mentale, tramite lo sforzo di concentrazione, fissando anche qui l’attenzione su quel punto neutro tra pensiero e pensiero o tra respiro e respiro, viene a determinarsi una condizione di coscienza in cui sono assenti i contenuti. Essa sarà dapprima momentanea, per venire poi, attraverso la reiterazione dell’esercizio, progressivamente più stabile.
    Il niroda parinama [trasformazione da soppressione] è quella trasformazione della mente nella quale essa viene progressivamente permeata da quella condizione di niroda, che interviene fugacemente tra un’impressione che sta svanendo e l’impressione che ne sta prendendo il posto (III, 9). Il suo flusso si acquieta grazie all’impressione reiterata (III, 10).
    I. K. Taimni, nel suo commento a Patañjali, paragona la condizione che in tal maniera si realizza nella mente alla inversione del moto (analogia che rimanda alla pratica dello stop sopra citata), per cui deve esservi un momento in cui l’oggetto non si sta muovendo, ma è in quiete. […] Tra due impressioni successive deve esservi un momento in cui la mente non ha alcuna impressione, si trova, cioè, in condizione non modificata. L’oggetto del niroda parinama è di produrla a volontà e di dilatarla gradualmente, in modo che la mente possa trovarsi per un periodo considerevole in uno stato non modificato (I. K. Taimni, p. 269 s.).
    Impegnando tutte le sue risorse, attraverso una progressiva rarefazione della coscienza, il praticante giunge alla condizione di jivanmukta (liberato in vita), cioè di colui che è libero dagli impedimenti dell’avida (nescienza o ignoranza trascendentale) e identificato con Brahman (l’eterno Assoluto), Dalla sua mente stabilizzata sono spazzate via incertezze, dubbi, tensioni e oscillazioni:
    Nella luce dell’eterno tutti i problemi della vita potranno venir risolti, perché […] sono tutti radicati nell’eterno. Per essere più esatti i problemi non vengono risolti nella luce della coscienza eterna, essendo quello di risolvere un processo caratteristico dell’intelletto legato all’illusione. Essi vengono dissolti. Non esistono più perché erano pure ombre poste dall’intelletto nel campo dell’irreale e naturalmente non possono esistere nel campo del Reale (ivi, p. 391).
    È questo lo stato di coscienza del nirvikalpa-samadhi [samadhi immutabile], privo di pensieri, dualismi e relazioni.
    c. Molto particolare è poi la trattazione che la tradizione buddhista riserva al problema del vuoto mentale. Infatti, non si ripeterà mai abbastanza che con Vacuità non si vuole, in questo contesto, indicare il "nulla", ma la "mancanza di esistenza intrinseca" dei fenomeni, sottolineandone così la natura relazionale e interdipendente. Se osserviamo i caratteri cinesi con i quali questi concetti vengono rappresentati7 , vediamo che essi sono giustamente distinti: il primo (cin.: wu, giapp.: mu)8 è impiegato per il "nulla", come niente, negazione, mentre il secondo (cin.: k’ung; giapp.: ku) ha il significato non di negazione dell’esistenza in quanto tale, ma di vuoto9, Vacuità (skr.: sunyata), per significare che i fenomeni sono privi di esistenza inerente.
    Per quanto riguarda il vuoto mentale, con niroda samapatti nel buddhismo theravada si intende il conseguimento dell’estinzione, ossia la sospensione temporanea di tutte le forme di coscienza e di attività mentale che segue lo stadio detto "sfera di né percezione né non-percezione" ossia l’ottavo livello jhanico10 di assorbimento meditativo. Secondo il Visuddhimagga — il classico manuale di pratica religiosa del buddhismo del sud-est asiatico redatto da Buddhaghosha (V sec. d. C.) — può raggiungere tale stadio chi, utilizzando le due facoltà di calma (samatha) e visione profonda (vipassana), ascenda di livello in livello. Emergendo da ciacuno degli stadi di assorbimento e riguardandoli con visione profonda, il meditante vi scorge i caratteri di tutti i fenomeni: impermanenza, vacuità e insoddisfacenza (p. 824 ss.). Poiché tale condizione estatica, secondo la tradizione, può durare per una settimana e più, nel sutra Mahavedallasutta [Grande discorso di argomenti vari] (M. N., n° 43, vol. I, p. 356) vengono precisate come segue le differenze tra il praticante che ha realizzato il niroda samapatti e una persona morta:
    In colui che è morto le attività corporee sono arrestate e sospese, le funzioni verbali e mentali sono arrestate e sospese, la vitalità è interamente consumata, il calore vitale estinto, le facoltà sensoriali interamente distrutte. Viceversa, nel praticante che ha conseguito la cessazione, benché le attività corporee siano arrestate e sospese, le funzioni verbali e mentali siano arrestate e sospese, la sua vitalità non è interamente consumata, il calore vitale non è estinto, le facoltà sensoriali sono purificate.
    Questa osservazione non soltanto mostra la transitorietà e la vacuità di ogni esperienza estatica anche profonda, ma anche che il raggiungimento del vuoto mentale (pur a volte identificato col raggiungimento del Nirvana) non rappresenta l’ultima tappa dello sviluppo autorealizzativo. La concentrazione e la calma arrestano il brusìo della mente, distruggono i pensieri dualistici ed egoici, per cui la quiete di ogni dinamismo mentale viene a coicidere con la staticità dinamica dell’Assoluto inconcepibile. Nel Culasuññatasutta [Piccolo discorso sulla vacuità] (in M. N., n° 121, vol. III, p. 147) il Buddha descrive come procedere verso i più elevati livelli di vacuità mediante lo svuotamento della mente dai contenuti propri dei livelli progressivamente superati. Al più alto dei livelli di vacuità basati sulla meditazione di calma, il Buddha osserva che ciò che rimane è costituito soltanto dalla non-vacuità dei «sei campi sensoriali che, condizionati dalla vita, sono basati sul corpo stesso». Anche la concentrazione mentale più elevata è tuttavia «determinata ed escogitata. Ma tutto ciò che è determinato ed escogitato è impermanente e destinato a finire». Applicando anche ad essa la formula usata per indicare l’origine condizionata o dipendente dei fenomeni, «Quello essendo, questo è» (M. N., vol. II, p. 151 s.)11, si opera il passaggio al mondo della molteplicità dinamica. Il metodo usato, portato alla sua estenuazione, si rovescia nel contrario e dall’osservazione dei caratteri "negativi" della realtà fenomenica (impermanenza, insoddisfacenza e mancanza di esistenza inerente) si giunge a incontrare nei fenomeni i caratteri "positivi" della Realtà incondizionata (permanenza, beatitudine, realtà), come, d’altra parte, l’estasi/vacuità si rovescia nella molteplicità/pienezza: essendo ancora "posizioni" che si muovono nel mondo del dualismo, esse rivelano-il e si tramutano-nel loro contrario. Nel buddhismo mahayana, fondato sulla filosofia e sulla pratica della Via di mezzo, questo concetto verrà ripreso e sviluppato dalle varie scuole e, in particolare, dalla Scuola T’ien-t’ai, il cui fondatore, Chih-i, con una fortunata espressione, afferma:
    Segui il provvisorio ed entra nella realizzazione della Vacuità; segui la Vacuità ed entra nel provvisorio; questa è la Via di mezzo.
    Partendo dal molteplice, viene realizzato l’Uno senza determinazioni; partendo dall’Uno, viene realizzato il molteplice: due percorsi parziali, da integrare e unificare nell’esercizio di una mente che possiamo chiamare la "mente della Via di mezzo", una mente capace di cogliere l’unità di vuoto e di forma, la "meravigliosità" del mondo nella sua determinazione, l’identità di nirvana e samsara12. A essa, che passa dall’attenzione vuota all’attenzione al vuoto come vera realtà delle forme, si addice particolarmente la qualifica di "mente del risveglio"13.
    L’accenno fatto da De Sanctis al buddhismo è limitato allo zen, accenno esplicitamente basato su una conoscenza indiretta:
    Per non dilungarmi troppo, dirò più particolarmente soltanto poche parole a proposito della setta Zen buddistica, servendomi di quanto ne riferiva il filosofo giapponese Motora in una comunicazione al V Congresso di psicologia di Roma del 1905, e dei commenti che il Motora ne fece verbalmente a chi scrive (P. S., p. 84).
    Il concetto di Shinnyo, a cui De Sanctis si riferisce, risulta abbastanza incomprensibile nella spiegazione da lui fornita. Qual è dunque il significato di questo termine? Shinnyo14 traduce il termine sanscrito tathata e indica la vera essenza, l’autonatura (in inglese tradotto con thusness, suchness), la realtà "sottostante" o "noumenica", da cui la esistenza fenomenica dipende. Tra gli illusori concetti relativi, cosa fondamentale, si colloca anche quello di un io come entità separata e autoconsistente. Se questo è l’aspetto, potremmo dire, "ontologico" di Shinnyo (sia pure di una ontologia della Vacuità, in cui Shinnyo esprime appunto Shinku15, vera Vacuità), dal punto di vista psicologico, esso è stato «diviso in Fuhen-Shinnyo e Zuien-Shinnyo, il primo immutevole e sempre puro, mentre il secondo, attivato dall’ignoranza [trascendentale] (mumyo), dà luogo ai vari fenomeni dell’esistenza» (AA. VV., p. 284). La Scuola Tendai, nel suo rigorismo non-dualistico, sottolinea, infine, che in Shinnyo sono presenti e uniti aspetti "puri" e aspetti "impuri".
    La mente zen, come mente del risveglio, che vede la vera realtà delle cose come vacuità, appare quindi un riferimento meno pertinente alla tesi di De Sanctis di quanto non siano le predette esperienze yogiche. Egli, tuttavia, concludendo i suoi cenni sull’argomento delle psicologie spirituali orientali, ritenendo di avere avuto da esse ulteriori conferme alle sue asserzioni, scriveva:
    Così l’esperienza psicologica viene confermata. L’esercizio, lo sviluppo, la perdita di ogni sforzo, la liberazione, la pura spiritualità… vengono dopo. Il psicologo empirista si disinteressa di tutto questo (P. S. , p. 85).
    La più importante lezione che può venire dall’esperienza del vuoto (che gli oggetti, e l’io, sono privi di esistenza propria e, in questo senso, "illusori") è caduta dunque nel disinteresse. Del pari, né il significato dei fenomeni psicopatologici di dissoluzione della coscienza né il valore terapeutico di stati analoghi a quelli dell’ipnosi neutra o della carte blanche nel Training autogeno hanno ricevuto migliore considerazione. Conclusioni. – De Sanctis, nel volume dedicato alla psicologia applicata (il II della sua Psicologia sperimentale), trattando della psicologia della religione, non solo ribadisce il suo interesse di studioso per questa tematica, ma soprattutto tiene a sottolineare la legittimità, per la psicologia scientifica, di occuparsi del fenomeno religioso, sostenendo, di fronte alle possibili critiche di invadenza di campo, che
    il psicologo applicando ad argomenti così delicati i dati della psicologia generale costruisce, non distrugge. Non sarà la psicologia scientifica la distruggitrice dei valori supremi; ma se mai lo saranno l’immanentismo o il positivismo filosofico (p. 37).
    Partendo dall’esigenza di affermare l’esistenza di una energia (psichica) differente (da quella vitale) per affermare l’autonomia della scienza psicologica, egli cercò di dimostrarla allo stato puro come attività psichica indifferenziata e ritenne di avere offerto tale dimostrazione con gli esperimenti sul vuoto mentale, corredati da testimonianze psicologiche e mistiche. Egli non era dunque interessato a una utilizzazione della tematica del vuoto né in contesti clinico-terapeutici né per proporre una psicologia degli stati di coscienza con apertura spirituale. In altri termini, De Sanctis non adoperò la tematica del vuoto mentale per illuminare la psicologia religiosa, ma la psicologia religiosa per illuminare il problema epistemologico che gli stava a cuore.
    Troppo forti, evidentemente, erano in quegli anni le preoccupazioni per le diffidenze filosofiche, che rendevano difficile il cammino per la costruzione di una credibile psicologia "scientifica". Appicciafuoco considerava la questione della dimostrazione dell’attività psichica indifferenziata proprio come un tributo pagato alla filosofia. Secondo lui, questa non può essere sperimentata perché cade fuori dell’io empirico, soggetto dell’esperienza; se, invece, è una esperienza vuol dire che si tratta di un io attivo differenziato, per cui si chiedeva:
    È possibile sperimentare l’attività psichica distinta dai contenuti, l’Io-attivo indifferenziato? (p. 80). E, ipersemplificando, ritiene che, trovandosi di fronte l’io-sviluppato, ciò sia da considerare contraddittorio:
    Bisogna di necessità concludere che il vuoto non è vuoto, che l’energia indifferenziata non è tale, che essa ha un inizio di differenziamento; e se è così viene a cadere l’affermazione desanctisiana (p. 81).
    Il ragionamento è sbrigativo ai limiti della rozzezza, non considerando che, come il mentale si "appoggia" al somatico così la mente transpersonale e gli stati modificati di coscienza si "appoggiano" a una mente individuale e a una coscienza ordinaria: le proprietà emergenti trascendono, ma non eliminano i livelli di integrazione da cui emergono, e i limiti costituiscono la condizione necessaria per il loro stesso superamento. Mentre De Sanctis era orientato verso la possibilità di recuperare un livello "originario" o "di base" indifferenziato, Appicciafuoco al contrario vedeva la differenziazione come un processo irreversibile e pertanto considerava contraddittorio parlare di esperienza del vuoto. In mancanza di un costrutto come quello degli stati modificati di coscienza e collocando "all’indietro" e non "in avanti" gli stati di attenzione vuota e di attenzione al vuoto, viene in entrambi i casi negato a tali esperienze il significato di costruzione evolutiva da parte di una mente che, svuotatasi della coscienza di sé, lungi dall’annullarsi, si espande e si unifica con la Realtà ultima, vivendo l’eterno nel tempo e l’infinito nel determinato. Le psicologie tradizionali orientali, come abbiamo potuto ricordare anche attraverso il nostro rapido excursus, mostrano a dovizia tutto questo. Limitando il vuoto mentale ad astratto fenomeno psicologico e a materiale osservativo utile per la sua ipotesi, De Sanctis rifaceva spazio a quelle invadenze da cui voleva difendere la ancora troppo fragile esistenza di una psicologia che, tra l’incudine filosofica (a cui a volte si appoggia protestando nobili origini) e il martello scientifico (a cui spesso affida la tutela della propria attendibilità mediante concetti e metodi di cui potrebbe fare a meno), stenta ancora oggi ad affermare una sua autonoma scientificità. Lasciando i concetti energetici nel dominio che è loro proprio, abbandonando l’ingannevole astrattezza delle "funzioni psichiche" a vantaggio dell’analisi dei vissuti, rivolgendo più attenzione al linguaggio e ai contesti culturali, sprovincializzando l’ambito delle fonti testuali ed esperienziali, anche il problema della Vacuità e del vuoto mentale può essere affrontato in una luce nuova, nella direzione lungo la quale ci si è cominciati a muovere negli ultimi decenni16. Il lavoro di De Sanctis è stato, in questo settore, generoso ma in parte infruttuoso, e, come spesso accade con l’opera di molti pionieri, ci lascia utili insegnamenti anche quando a volte si incammina per un sentiero interrotto (Holzweg) che è, a un tempo, via e sviamento.

    Note
    1 Un rapido cenno ne fa Aletti nella sua rassegna sulla psicologia della religione in Italia.
    2 Cfr. la raccolta di AA.VV., 1993.
    3 Cfr.: Vide, in Dictionnaire de spiritualità; V. Verra; S. Givone.
    4 Oltre ai testi pubblicati da C. Ossola (sui quali v. C. Magris, 1998) e alla storia del Nulla di S Givone, 1995, ricordo il saggio di R. Casati e A. C. Varzi, 1996 sui buchi e le interruzioni di superficie, che testimonia il fascino delle “mancanze” anche in ambito scientifico.
    5 Cfr. quanto in proposito ho analizzato in altra sede (Coscienza e cambiamento, p. 343 ss.), non dimenticando tuttavia alcuni attuali germi di cambiamento (ivi, n. 5.46).
    6 Nel senso dato al termine dallo stesso Montale.
    7 Cfr. Venturini, p. 351.
    8 Fuoco o cavalli e carro persi nella foresta: qualcosa che non esiste (ad es., le corna della lepre) o non è presente (come quando affermiamo: «qui non ci sono elefanti»).
    9 Come il cielo privo di nubi: il cielo c’è, ma non presenta nubi.
    10 Jhana o immersione, assorbimento, trance.
    11 La formula dell’origine condizionata o dipendente è presente in molti testi e, al di là di piccole varianti espressive, suona: «Quando questo è presente, quello si verifica; dalla nascita di questo, quello nasce. Quando questo è assente, quello non si verifica; dalla cessazione di questo, quello cessa».
    12 Per la mente illuminata il vuoto e la forma sono una cosa sola e la vita di saggezza è quella che è capace di vivere questa profonda unità, secondo quanto è scritto nel Prajña paramita sutra: «La forma è vuoto, il vuoto è forma».
    13 Interessante, nel contesto dell’attuale dialogo interreligioso, l’accostamento del concetto cristiano di kénosis con quello buddhista di una Vacuità che, svuotandosi, si rivela pienezza e molteplicità (cfr. Mitchell).
    14 Scritto coi caratteri: dieci, occhio, gambe = correttezza o verità per l’uomo + donna, bocca = parlare femminile (in conformità alle circostanze) = come è, esser eguale; insieme = la vera essenza.
    15 Scritto coi caratteri di shin (v. n. prec.) + ku (v. n. 7).
    16 In bibliografia, oltre alle opere citate, ho ritenuto utile riportare alcuni dei lavori più significativi pubblicati negli ultimi anni sui temi della Vacuità, del Nulla, della meditazione sul vuoto, etc. In particolare, vorrei richiamare l’attenzione sull’importanza della cosiddetta Scuola di Kyoto.

    Bibliografia


    Abbreviazioni:
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