L'uso tardo del termine "yoga" in senso tecnico nel mondo buddhista

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    Per fare divulgazione su Instagram ho dovuto imparare ad essere estremamente sintetico, poiché il social in questione non consente di superare una quantità assai ristretta di caratteri. Si potrebbe pensare che, data questa condizione, semplicemente non sia possibile usare Instagram come piattaforma per la divulgazione, ma io ho voluto accettare la sfida per vedere cosa ne sarebbe uscito. Credo che la capacità di sunteggiare in poche parole un argomento sia pari al grado di padronanza del medesimo: più si conosce bene un argomento, più si è in grado di restituirlo, nelle sue linee essenziali, in poche parole e, per di più, in parole comprensibili anche dai non addetti ai lavori.

    Conoscete la storia della "conversione" di Sāriputta? Un giorno, incontrò un monaco, da poco ordinato, di nome Assaji e fu colpito dal suo portamento nobile e composto, così alla fine lo avvicinò e gli chiese sotto quale maestro conducesse vita religiosa e quale ne fosse l'insegnamento essenziale. La risposta di Assaji, pur se laconica, fu in grado di penetrare così a fondo in Sāriputta da fargli ottenere il grado di realizzazione spirituale di sotāpanna, “entrato nella corrente”, e immantinente l’occhio del Dhamma (dhammacakkhu), che vuol dire un’intuizione profonda dell’impermanenza, per cui si vede che tutto quel che ha la natura di sorgere, ha la natura di cessare (yaṃ kiñci samudaya dhammaṃ sabbaṃ taṃ nirodhadhammaṃ).

    L’episodio è famoso e la strofa (gāthā) pronunciata da Assaji era ed è ancora popolare in Asia. Il senso del verso è che di quei dhamma (termine collegato al verbo dharati, che vuol dire “sostenere”; potremmo tradurre dhamma come quegli enti, attingendo al gergo filosofico) che sorgono da una causa, il Tathāgata – detto alla fine Grande Asceta (mahāsamaṇa) – ha insegnato la loro causa e la loro cessazione (ye dhammā hetuppabhavā tesaṃ hetuṃ tathāgato āha, tesaṃ ca yo nirodho evaṃvādī mahāsamaṇo).

    Cose importanti possono essere dette anche in termini semplici e comprensibili da tutti, senza snaturarle e, in questo caso, mantenendone l’efficacia soteriologica. Io ovviamente non ho la benché minima pretesa di dire qualcosa dall'elevato potenziale soteriologico, la mia è soltanto una "pillola" di buddhologia, una "curiosità" che ruota attorno all'uso tardo che i buddhisti fecero del termine yoga per riferirsi a determinate tecniche contemplative.

    Ecco, dunque, la "pillola":

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    Una persona non addentra negli studi buddhologici si aspetterebbe che il concetto di "yoga" sia strettamente congiunto al mondo buddhista fin dalle sue origini. Tuttavia, non è proprio così. È vero che già nel Canone in lingua pāli abbiamo traccia dell'esistenza di forme di meditazione che in prosieguo di tempo sarebbero state sussunte sotto la denominazione di "yoga", ma la prima occorrenza esplicita di questo termine per designare la meditazione in qualche sua forma si trova, a mia conoscenza, nel Milindapañha, dove si parla di “colui che è intento alla meditazione” (yogāvacara), il “praticante dello yoga“, traduce Francesco Sferra, lo yogin, in una parola. A che periodo risale il Milindapañha? Il testo ha una storia redazionale complessa, vale a dire, non è stato composto tutto in una sola volta, ma il suo nucleo originario, da identificare presumibilmente coi primi tre libri, sarebbe stato composto tra il 100 a.C. e il 200 d.C.: un testo tardo, dunque.

    I più versati nel Canone potrebbero far notare l'esistenza in esso di un sutta intitolato Yoga-sutta, che già nel titolo ha il termine yoga, ma qui non è impiegato in senso tecnico per riferirsi a determinate tecniche meditative, bensì nel senso di “legame”, "vincolo" (bond, traduce Bhikkhu Bodhi), che costringe alla rinascita. Più significative, nell'ambito del Canone, sono le figure di Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, i cui ottenimenti contemplativi, poi integrati nel metodo buddhista, sono di tipo chiaramente yogico.

    Ma dall'Ariyapariyesanā-sutta apprendiamo che Gotama si accomiatò dai suoi maestri poiché il loro insegnamento e le loro pratiche non conducevano a ciò che egli ricercava (distacco, disincanto, cessazione, quiete, super-conoscenza, perfetta conoscenza, estinzione), ma soltanto, rispettivamente, alla ākiñcaññāyatanūpapatti, ovvero alla “rinascita nella sfera del nulla”, e alla nevasaññānāsaññāyatanūpapatti, ovvero alla “rinascita nella sfera della né percezione né non-percezione”.

    ll raggiungimento dei pur altissimi livelli di concentrazione insegnati da Āḷāra e Uddaka di per sé non conduce all’uscita dal saṃsāra, ma alla rinascita al suo interno, sebbene in piani in cui l’esistenza è lunga e felice, certo però non nel senso di quella felicità ultima che solo il nibbāna può dare. L'integrazione dei metodi e dei risultati "yogici" di Āḷāra e Uddaka all'interno del sentiero buddhista è dunque subordinata al superamento della rinascita in quale che sia piano del saṃsāra, ivi inclusi quelli divini.

    Sebbene l'esistenza celeste non sia considerata negativamente, essa è pur sempre di natura "condizionata" (saṅkhata), non è oltre il ciclo della rinascita, ma entro esso, laddove l'obiettivo finale della soteriologia buddhista è il suo superamento irreversibile, è la realizzazione del non-condizionato/non-composto (asaṅkhata): il nibbāna, ciò che solo non nasce e non muore.

    Edited by Fantasia - 4/11/2023, 08:34
     
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    Nello spirito della sintesi: meraviglioso! :)
     
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    Bell'intervento. Se non l'hai già letto ti rimando anche alla prefazione dello Yogasūtra di Patañjali nell'edizione di F. Squarcini. Lì si trova un'estesa ricostruzione del termine "yoga" e della sua storia nell'India antica. Viene menzionato, ma vado a memoria, anche quel Yoga-sutta che nomini
     
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    Shankar Kulanath

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    Grazie per il contributo
     
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