Una breve riflessione sul Dharma e sulle sue letture "moderniste"

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    Nel buddhismo cosiddetto "modernista", si tende a sottacere, in maggiore o minor misura, il tema e il concetto stesso di rinascita, alle volte ritenuto inessenziale e tale per cui il Dharma possa sostenersi anche senza. A me sembra, invece, che senza l'idea di rinascita il Dharma si riduca a una sorta di "psicologia" per vivere bene in questa unica vita, senza alcuna pretesa di trascendenza. Ma se guardiamo ai testi antichi in modo imparziale, senza preconcetti e senza forzature ermeneutiche per far dire loro ciò che vorremmo dicessero, constatiamo facilmente che quello della rinascita è un aspetto non marginale, strettamente connesso con l'idea stessa di "salvezza" che questi testi propongono.

    La liberazione, nella formula canonica che tipicamente la esprime, è anzitutto liberazione dalla rinascita: "distrutta è la nascita [o rinascita] (khīṇā jāti), compiuta è la vita religiosa (vusitaṃ brahmacariyaṃ), ciò che doveva essere fatto è stato fatto (kataṃ karaṇīyaṃ), non ci sarà ulteriore esistenza (nāparaṃ itthattāya)”. Il sostantivo di genere femminile jāti significa sia "nascita" che "rinascita", proprio perché nella concezione buddhista l'esistenza non è conchiusa, ma è parte di una serie di innumerevoli cicli di nascita, morte e rinascita, che si ripetono da tempi senza inizio. Rimuovere dall'orizzonte buddhista la rinascita non significa soltanto depauperarlo, restringendone il campo, ma direi proprio snaturarlo, facendone qualcosa che non è più "buddhismo", perlomeno non secondo il framework dato dai testi antichi.

    Lo stesso nibbāna, senza l'idea di rinascita, non avrebbe quel senso profondo che nei testi antichi ha, ma sarebbe ridotto a semplice esperienza di benessere psicologico o, al limite, di una maggiore o minore "beatitudine", ma di natura mondana, non sovramondana, com'è invece nel canone, ove si parla di un āyatana ("sfera", "dominio", "base", "dimensione"...) con caratteristiche affatto contrarie a quelle ordinarie e, finanche, straordinarie, quali sono quelle poste in essere grazie alla contemplazione, persino spinta ai suoi massimi livelli. Intendiamoci, anch'io sono "scettico" sulla rinascita, ma bisogna saper distinguere le proprie opinioni da ciò che un'analisi lucida e spassionata dei testi rivela, senza voler far coincidere le due prospettive a ogni costo, anche al prezzo di travisare e tradire il senso delle scritture. Uso il termine "scettico" nella sua accezione strettamente filosofica, ovvero nel senso di non sapere se la rinascita esista o non esista, ma, proprio per questo, sono ancora alla "ricerca" (sképsis) di risposte, assumendo quale presupposto che un'indagine ben condotta possa portare, se non a certezze incrollabili, quanto meno a conclusioni verosimili.

    A ogni modo, indipendentemente da quale sarà l'esito della mia personale ricerca, dai testi antichi è chiaro che, se non esistesse alcuna rinascita, il messaggio del Buddha non costituirebbe più una vera e propria soteriologia, con un percorso strutturato conducente a una soluzione definitiva e trascendente al problema del "dolore", ma un mero palliativo allo stress. Di qui si spiegherebbero il successo e l'interesse crescenti che raccoglie intorno a sé, da parte di uomini e donne che vivono in condizioni sempre più nemiche della calma interiore. Io non sono contrario a una rilettura in termini contemporanei del Dharma, credo anzi che ogni maestro abbia il compito di attualizzare l'antico messaggio, pena portarselo appresso di generazione in generazione come un "relitto" incapace di parlare agli uomini del proprio tempo; tuttavia, occorre l'onestà intellettuale di dire che il Dharma così inteso risponde all'esigenza di renderlo comprensibile e appetibile agli esseri umani del XXI sec., ma anche di segnalare i punti in cui si discosta e differenzia dall'insegnamento del Buddha qual è dato apprendere dai testi più antichi di cui disponiamo. Quel cui invece si assiste non di rado, sono interpretazioni "moderniste" presentate come aderenti all'essenza del Dharma, che guarda caso coincide sempre con quelle che sono le proprie idee ed esigenze. Qui c'è disonestà, peraltro alle volte in buona fede, ossia da parte di persone che semplicemente non conoscono a sufficienza il Dharma e ne danno letture superficiali piegandolo ai propri scopi, ma senza la consapevolezza di cosa sia il Dharma e in cosa diverga dalle sue interpretazioni moderniste.

    In questo mare magnum del buddhismo "modernista", c'è un Dharma per ogni esigenza: un Dharma misticheggiante o proprio mistico, un Dharma utile in psicoterapia, un Dharma esoterico, un Dharma scientifico, un Dharma filosofico etc. Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Tenendo conto di questa complessa situazione, che tutto sommato ha una storia recente, credo che un compito dei buddhologi sarà quello di ricostruire questa storia, per capirne l'origine e lo sviluppo, per procedere non voglio dire a una critica, ma a una discussione, con fonti alla mano, allo scopo di distinguere ciò che possiamo capire dell'insegnamento del Buddha in base ai testi maggiormente antichi a nostra disposizione - da pochi decenni oggetto di rigorosi studi comparativi tra i "paralleli" - da ciò che invece risulta essere uno sviluppo occidentale nella ricezione del Dharma. Così edotti, ognuno potrà poi liberamente scegliere il percorso più congeniale a sé, ma con cognizione di causa, con contezza di cosa è un'innovazione contemporanea e cosa invece è più antico.

    Non parlo di cosa sia "tradizionale", perché il buddhismo già in antico era plurale, e già nel canone pāli abbiamo tracce di una molteplicità di punti di vista, forse derivanti da tradizioni diverse confluite nel movimento buddhista. Parlare di "tradizione", dunque, sarebbe ambiguo, poiché non solo sappiamo che già il buddhismo antico contava molte scuole, ma anche perché all'interno di una stessa tradizione possono esistere idee diverse, come di fatto è ancora oggi. Quel che si può fare, in base ai testi che abbiamo, è stabilire cosa sia più antico e cosa sia posteriore. Ciò porterebbe a concludere, nel tema oggetto di questa riflessione, che l'idea di rinascita abbia senz'altro radici antiche nel buddhismo, e non possa pertanto essere eliminata senza arrecare un grave "danno" al Dharma.

    Edited by Fantasia - 29/3/2024, 18:20
     
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    Nel buddhismo cosiddetto "modernista", si tende a sottacere, in maggiore o minor misura, il tema e il concetto stesso di rinascita, alle volte ritenuto inessenziale e tale per cui il Dharma possa sostenersi anche senza

    dipende da cosa intendi per buddhismo modernista.
    all'interno del cosiddetto "modernismo" - dannate etichette, non ce ne libereremo mai... :rolleyes: - vengono infatti comunemente compresi anche buddhadasa e vari monaci della foresta per quanto riguarda il theravada, o lo stesso thich nhat hanh in ambito mahayana, ad esempio.
    tutti maestri che la rinascita non tralasciano affatto, anzi
     
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    p.s. dimenticavo: c'e' chi considera un modernista anche il Dalai Lama... quindi figurati! :lol:
     
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    Io penso che il test sia grossomodo il seguente: vedere uno di quei bei filmatini su YT in cui si arrostiscono o si friggono vivi animali che chiaramente stanno soffrendo le pene dell'inferno, pensare che basta un arresto cardiaco per trovarsi in 10 minuti scarsi in una padella simile da qualche altra parte e decidere di correre ai ripari. Ovviamente so che questo vuol dire escludere due terzi dei Buddhismi autentici di oggi, e non penso certo che chi non vede le cose in quel modo sia una specie di eterodosso.

    Quello che dico è che in troppi casi non si tiene presente che il Buddha, mutatis mutandis, era preoccupato di finire in padella e per questo lasciò il palazzo.

    ok, pero' io dico... se il Buddha era davvero così preoccupato di finire in padella, come mai alla fine si mangio' il maiale cotto - o magari crudo, chissa'! :lol: - e ci crepo' pure? :lol:
    mutatis mutandis, ovviamente, mutande in primis! :lol:
     
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    un essere non nasce da un essere. un essere non nasce da un non essere. un non essere non nasce da un non essere. un non essere non nasce da un essere.
    un essere non nasce da se stesso, ne' nasce da altro, ne' nasce da se stesso o da altro. e allora come nasce?
    chi crede all'esistenza di un essere e' vittima, in conseguenza, delle teorie dell'eterno e dell'annientamento


    (madhyamakakarika, critica della produzione e della sparizione)

    se non altro dopo il Buddha e' arrivato nagarjuna a girare per la seconda volta la ruota del dharma e a chiarirci le cose! :lol:
     
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    A proposito della reincarnazione, la gente chiede spesso: “Se non c’è un’anima, come fa a rinascere qualcosa? Che cos’è che continua da una vita all’altra, se non c’è l’anima?”. A dire il vero, la teoria della reincarnazione non appartiene al buddhismo, ma all’induismo. Secondo la visione induista della reincarnazione, passiamo da un corpo all’altro. Se siete nati in una casta inferiore, dovete attendere la prossima incarnazione, la prossima vita, per rinascere eventualmente in una casta superiore.

    Nel buddhismo verrebbe considerata superstizione, perché non può essere dimostrata e invita a pensare che nascere in una certa classe o in una determinata casta sia segno di purezza. Tutti possono constatare che nasce nella casta brahminica può essere spregevole, corrotto e impuro esattamente come il più miserabile degli intoccabili. Sappiamo anche che un intoccabile può essere puro di cuore se vive una vita dignitosa e fa uso della saggezza.

    Estratto dal link seguente:

    https://santacittarama.org/2019/08/12/il-k...e-la-rinascita/
     
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    CITAZIONE (eizo @ 29/3/2024, 19:31) 
    dipende da cosa intendi per buddhismo modernista.
    all'interno del cosiddetto "modernismo" - dannate etichette, non ce ne libereremo mai... :rolleyes: - vengono infatti comunemente compresi anche buddhadasa e vari monaci della foresta per quanto riguarda il theravada, o lo stesso thich nhat hanh in ambito mahayana, ad esempio.
    tutti maestri che la rinascita non tralasciano affatto, anzi

    Limitando le mie considerazioni alla tradizione theravāda, per il fatto di essere quella che conosco meglio, Buddhadāsa è infatti, per me, un buon esempio di "modernismo". Lui ha sostenuto - tra le molte altre cose - che tutte le religioni in ultima analisi siano essenzialmente unitarie e non differenti, anzi addirittura inesistenti, una volta attinta la vera natura delle cose, non suscettibile di denominazione nei termini di questa o quella forma religiosa (ivi inclusa quella "buddhista").

    Si tratta di una posizione discutibile. Questo "ecumenismo", se da un lato è apprezzabile, dall'altro è ricolmo di difficoltà insormontabili. Come sostenere fino in fondo, coerentemente, che la Trinità in ultima analisi collimi con la vacuità, ad esempio? Buddhadāsa parla di una realtà ultima non categorizzabile come cristiana né come buddhista né in alcun altro modo, ma allora perché storicamente sono esistiti aspri scontri dottrinali tra, ad esempio, vedāntin e buddhisti, e persino tra buddhisti e buddhisti, e vedāntin e vedāntin, anche da parte di persone notevolmente dotate in termini intellettuali e progredite meditativamente? Śaṅkara, non proprio lo 'scemo del villaggio', arriva a dire che la più grande disgrazia dell'umanità fosse la nascita del Buddha: questo tanto per far capire l'inimicizia tra advaitin e buddhisti!

    Se, come dice Buddhadāsa, alla fine non esiste neppure il "buddhismo", come mai il più grande commentatore del Theravāda, Buddhaghosa, nel suo Visuddhimagga dice che il nibbāna possa essere raggiunto soltanto tramite il Sentiero (sottinteso, quello del Buddha: Vism XVI, 71)? O ancora, ma gli esempi possibili sarebbero molti, come mai una citazione contenuta nello stesso Visuddhimagga dice che l'unica via d'uscita (dal "condizionato") sia il Sentiero, definito come la "vera via da seguire" (Vism XVI, 25)? Se veramente le religioni in ultima analisi fossero in armonia tra loro, una via dovrebbe valere quanto tutte le altre, ma così pare non essere. Ciò può essere provato anche in base al tentativo di dialogo interreligioso portato avanti nel secolo scorso da Henri Le Saux, che per decenni si è logorato per costruire un "ponte" tra Advaita Vedānta e cattolicesimo, senza riuscirvi, almeno dal punto di vista dottrinale. Poi lui, dal punto di vista pratico, alla fine della sua vita ebbe un'esperienza "mistica" che secondo alcuni costituirebbe una riuscita sintesi "esperienziale" tra quei due mondi religiosi così differenti "teoricamente", ma siccome le sue testimonianze al riguardo sono poche e "ispirate" non abbiamo modo di analizzarle precisamente, come vorremmo, per capire cosa davvero abbia vissuto e se ciò possa essere davvero inteso come una "sintesi", sia pure d'ordine "mistico" e non "dottrinale".

    Infine, per quanto riguarda le "etichette", trovo anch'io che a volte mal si convengano a una realtà fluida e resistente alle rigide categorizzazioni, d'altra parte, come ben sai, gli stessi buddhisti, fin dalle prime fonti che abbiamo, mostrano un forte spirito tassonomico, com'è caratteristico peraltro del pensiero indiano (pensiamo al Sāṃkhya, giusto per citare un sistema). L'Abhidhamma porta a compimento l'atteggiamento classificatorio proprio già del Buddha, quanto meno secondo le fonti più antiche che abbiamo, a lui attribuite. Del resto, anche la scienza moderna usa schemi e categorie: pensiamo alle tassonomie in biologia. Oppure, in ambito filosofico, pensiamo alla dialettica platonica. Insomma, ammetto di non comprendere fino in fondo l'avversione alle "etichette".
     
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    CITAZIONE (Non. Io @ 29/3/2024, 23:47) 
    A proposito della reincarnazione, la gente chiede spesso: “Se non c’è un’anima, come fa a rinascere qualcosa? Che cos’è che continua da una vita all’altra, se non c’è l’anima?”. A dire il vero, la teoria della reincarnazione non appartiene al buddhismo, ma all’induismo. Secondo la visione induista della reincarnazione, passiamo da un corpo all’altro. Se siete nati in una casta inferiore, dovete attendere la prossima incarnazione, la prossima vita, per rinascere eventualmente in una casta superiore.

    Nel buddhismo verrebbe considerata superstizione, perché non può essere dimostrata e invita a pensare che nascere in una certa classe o in una determinata casta sia segno di purezza. Tutti possono constatare che nasce nella casta brahminica può essere spregevole, corrotto e impuro esattamente come il più miserabile degli intoccabili. Sappiamo anche che un intoccabile può essere puro di cuore se vive una vita dignitosa e fa uso della saggezza.

    Estratto dal link seguente:

    https://santacittarama.org/2019/08/12/il-k...e-la-rinascita/

    e non a caso anche sumedho viene considerato appunto per molti versi un "modernista", nonostante di rinascita parli eccome.
    quello che da par mio trovo curioso e' che, soprattutto in ambito theravada, i cosiddetti modernisti siano proprio molti di quei maestri che paradossalmente hanno fatto propria la Via del Buddha nella sua manifestazione piu' antica e pura.
    del resto parliamo di gente che il buddhismo lo vive ogni giorno sulla propria pelle e lo pratica per vera e propria vocazione - non per niente si tratta di monaci! - aldila' di qualsiasi definizione o etichetta

    p.s. ciao Non.Io!
    modifico il messaggio per salutarti così non mi sgridi di nuovo! :lol:

    Edited by eizo - 30/3/2024, 11:16
     
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    Limitando le mie considerazioni alla tradizione theravāda, per il fatto di essere quella che conosco meglio, Buddhadāsa è infatti, per me, un buon esempio di "modernismo". Lui ha sostenuto - tra le molte altre cose - che tutte le religioni in ultima analisi siano essenzialmente unitarie e non differenti, anzi addirittura inesistenti, una volta attinta la vera natura delle cose, non suscettibile di denominazione nei termini di questa o quella forma religiosa (ivi inclusa quella "buddhista").

    Si tratta di una posizione discutibile. Questo "ecumenismo", se da un lato è apprezzabile, dall'altro è ricolmo di difficoltà insormontabili. Come sostenere fino in fondo, coerentemente, che la Trinità in ultima analisi collimi con la vacuità, ad esempio? Buddhadāsa parla di una realtà ultima non categorizzabile come cristiana né come buddhista né in alcun altro modo, ma allora perché storicamente sono esistiti aspri scontri dottrinali tra, ad esempio, vedāntin e buddhisti, e persino tra buddhisti e buddhisti, e vedāntin e vedāntin, anche da parte di persone notevolmente dotate in termini intellettuali e progredite meditativamente? Śaṅkara, non proprio lo 'scemo del villaggio', arriva a dire che la più grande disgrazia dell'umanità fosse la nascita del Buddha: questo tanto per far capire l'inimicizia tra advaitin e buddhisti!

    Se, come dice Buddhadāsa, alla fine non esiste neppure il "buddhismo", come mai il più grande commentatore del Theravāda, Buddhaghosa, nel suo Visuddhimagga dice che il nibbāna possa essere raggiunto soltanto tramite il Sentiero (sottinteso, quello del Buddha: Vism XVI, 71)? O ancora, ma gli esempi possibili sarebbero molti, come mai una citazione contenuta nello stesso Visuddhimagga dice che l'unica via d'uscita (dal "condizionato") sia il Sentiero, definito come la "vera via da seguire" (Vism XVI, 25)? Se veramente le religioni in ultima analisi fossero in armonia tra loro, una via dovrebbe valere quanto tutte le altre, ma così pare non essere. Ciò può essere provato anche in base al tentativo di dialogo interreligioso portato avanti nel secolo scorso da Henri Le Saux, che per decenni si è logorato per costruire un "ponte" tra Advaita Vedānta e cattolicesimo, senza riuscirvi, almeno dal punto di vista dottrinale. Poi lui, dal punto di vista pratico, alla fine della sua vita ebbe un'esperienza "mistica" che secondo alcuni costituirebbe una riuscita sintesi "esperienziale" tra quei due mondi religiosi così differenti "teoricamente", ma siccome le sue testimonianze al riguardo sono poche e "ispirate" non abbiamo modo di analizzarle precisamente, come vorremmo, per capire cosa davvero abbia vissuto e se ciò possa essere davvero inteso come una "sintesi", sia pure d'ordine "mistico" e non "dottrinale".

    non so se hai letto la sua vita, ma buddhadasa visse in periodo di estrema politicizzazione e relativa corruzione del clero buddhista thailandese.
    in questo senso, oltre che modernista, fu un vero e proprio riformista in ambito theravada.
    anche da qui il suo rifiuto per qualsiasi tipo di identificazione religiosa: credo che avesse visto di quante porcherie fossero capaci i cosiddetti "buddhisti" stessi per potersi classificare e definire come uno di loro

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    Infine, per quanto riguarda le "etichette", trovo anch'io che a volte mal si convengano a una realtà fluida e resistente alle rigide categorizzazioni, d'altra parte, come ben sai, gli stessi buddhisti, fin dalle prime fonti che abbiamo, mostrano un forte spirito tassonomico, com'è caratteristico peraltro del pensiero indiano (pensiamo al Sāṃkhya, giusto per citare un sistema). L'Abhidhamma porta a compimento l'atteggiamento classificatorio proprio già del Buddha, quanto meno secondo le fonti più antiche che abbiamo, a lui attribuite. Del resto, anche la scienza moderna usa schemi e categorie: pensiamo alle tassonomie in biologia. Oppure, in ambito filosofico, pensiamo alla dialettica platonica. Insomma, ammetto di non comprendere fino in fondo l'avversione alle "etichette"

    mi sembra normale, sei uno studioso, no?
    definire, calssificare ed etichettare tutto e' una delle vostre peculiarita', appunto! :lol:
    ciao :)
     
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    per quanto riguarda il buddhismo scientifico, quello esoterico, quello mistico etc... etc.... credo siano tutte facce di un dado da 10...

    Comunque tu usi il termine "rinascita", questo, io e altri, lo intendiamo come rinascita della personalità durante l'arco di una incarnazione.
    Se i testi antichi si riferiscono a questo e non alla reincarnazione del continuum mentale in molti corpi, di era in era, credo che quel buddhismo sia quello che non concepisce la reincarnazione ma solo la rinascita.
     
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    Io personalmente non ci penso quasi mai
     
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    CITAZIONE (Cuore di Pietra @ 30/3/2024, 16:22) 
    Comunque tu usi il termine "rinascita", questo, io e altri, lo intendiamo come rinascita della personalità durante l'arco di una incarnazione.
    Se i testi antichi si riferiscono a questo e non alla reincarnazione del continuum mentale in molti corpi, di era in era, credo che quel buddhismo sia quello che non concepisce la reincarnazione ma solo la rinascita.

    Secondo le fonti più antiche cui abbiamo accesso, il Buddha insegnava il punabbhava, vale a dire il rinnovamento dell'esistenza, il ridivenire, la rinascita, e come interrompere questo processo che si reitera da tempi senza inizio.

    La (continua) "rinascita" entro l'arco di una sola esistenza è un fatto reale, secondo l'insegnamento buddhista della cosiddetta "scolastica", poiché la nostra mente al termine di ogni istante "muore" e subito dopo "rinasce", e anche il nostro corpo, composto da cluster materiali in gran copia, detti rūpa-kalāpa, in ogni momento sorge e cessa. Ma il processo non termina con la morte, a meno che non si sia attinto il grado massimo di realizzazione spirituale, l'arahatta. Mi pare di capire che tu su questo non sia d'accordo.

    Poni una differenza tra "rinascita" e "reincarnazione": la prima ha un'estensione maggiore della seconda, poiché il sistema buddhista contempla piani d'esistenza immateriali, ove rimangono soltanto citta e cetasika, ovvero la coscienza e i suoi concomitanti, senza corpo (niente "(re)incarnazione", dunque, in questi livelli, ma "rinascita" sì). Il buddhismo, insomma, ammette la rinascita e, in alcuni casi, la reincarnazione, intendendo con questa l'assunzione di un corpo da parte del viññāṇa o citta, che non sono sostanze immutabili, ma flussi condizionati (esiste proprio, nel lessico buddhista, il concetto di "flusso di coscienza", viññāṇasota, e anche quello di "continuum mentale", cittasantāna). Pertanto, né la rinascita né la reincarnazione sono da intendere al modo della metempsicosi platonica, ove c'è un'anima eterna che passa di corpo in corpo. So che la communis opinio è che la reincarnazione non trovi posto nel buddhismo, ma basta intendersi sul significato che le diamo e possiamo ammetterla nel Dharma.
     
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    CITAZIONE (Non. Io @ 29/3/2024, 23:47) 
    A proposito della reincarnazione, la gente chiede spesso: “Se non c’è un’anima, come fa a rinascere qualcosa? Che cos’è che continua da una vita all’altra, se non c’è l’anima?”. A dire il vero, la teoria della reincarnazione non appartiene al buddhismo, ma all’induismo. Secondo la visione induista della reincarnazione, passiamo da un corpo all’altro. Se siete nati in una casta inferiore, dovete attendere la prossima incarnazione, la prossima vita, per rinascere eventualmente in una casta superiore.

    Come ho detto e argomentato, sia pur brevemente, in risposta a Cuore di Pietra, credo che si possa parlare di "reincarnazione" anche nel buddhismo, purché si facciano le dovute precisazioni atte a evitare la confusione col concetto di "reincarnazione" cui siamo adusi a partire dalle tradizioni orfica e pitagorica.

    Per quanto riguarda l'annosa questione "chi rinasce?", gli scolastici della tradizione cosiddetta "theravāda" hanno dato una risposta, riassumibile sostanzialmente nell'idea che, propriamente parlando, non c'è "qualcuno" che rinasca (un'entità in qualche modo "personale"), ma una serie di punti-istante mentali rigorosamente impersonali che si succedono l'uno fungendo da condizione causale del successivo, costituendo un continuum generalmente privo di cesure. Alla morte di un soggetto non perfettamente realizzato, come solo è l'arahant, la "coscienza del trapasso" (cuti-citta) è seguita da quella forma di coscienza, chiamata paṭisandhi-citta, che funge da collegamento tra la vita passata e la nuova, per poi cessare, poiché in ogni esistenza si verifica un solo paṭisandhi-citta, seguito dal bhavaṅga-citta: una forma di coscienza subliminale, avente la funzione di garantire la continuità dell'esistenza individuale.
     
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    CITAZIONE (eizo @ 30/3/2024, 11:02) 
    non so se hai letto la sua vita, ma buddhadasa visse in periodo di estrema politicizzazione e relativa corruzione del clero buddhista thailandese.
    in questo senso, oltre che modernista, fu un vero e proprio riformista in ambito theravada.
    anche da qui il suo rifiuto per qualsiasi tipo di identificazione religiosa: credo che avesse visto di quante porcherie fossero capaci i cosiddetti "buddhisti" stessi per potersi classificare e definire come uno di loro

    Confesso di non conoscere adeguatamente la biografia di Buddhadāsa e ti ringrazio per avermene dato qualche elemento. Mi sembra di capire che la sua presa di distanza dalle identificazioni religiose dipendesse dalle contingenze storico-politiche cui assistette, e in questa luce il suo "ecumenismo" fosse conforme alla volontà di appianare le divergenze nel tentativo di costruire una sorta di "fratellanza" universale, di là dalla faziosità che troppo spesso storicamente si è accompagnata alle religioni maggiori. Il che è lodevole sul piano delle intenzioni, ma quanto realizzabile concretamente? Torno a ripetere che esistono, piaccia o meno, differenze irriducibili tra le religioni maggioritarie, motivo per cui gli "esperimenti" di dialogo interreligioso alla fin fine non vanno molto oltre un generico "volemose bene".
     
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    CITAZIONE (Fantasia @ 30/3/2024, 17:20) 
    CITAZIONE (Cuore di Pietra @ 30/3/2024, 16:22) 
    Comunque tu usi il termine "rinascita", questo, io e altri, lo intendiamo come rinascita della personalità durante l'arco di una incarnazione.
    Se i testi antichi si riferiscono a questo e non alla reincarnazione del continuum mentale in molti corpi, di era in era, credo che quel buddhismo sia quello che non concepisce la reincarnazione ma solo la rinascita.

    Secondo le fonti più antiche cui abbiamo accesso, il Buddha insegnava il punabbhava, vale a dire il rinnovamento dell'esistenza, il ridivenire, la rinascita, e come interrompere questo processo che si reitera da tempi senza inizio.

    La (continua) "rinascita" entro l'arco di una sola esistenza è un fatto reale, secondo l'insegnamento buddhista della cosiddetta "scolastica", poiché la nostra mente al termine di ogni istante "muore" e subito dopo "rinasce", e anche il nostro corpo, composto da cluster materiali in gran copia, detti rūpa-kalāpa, in ogni momento sorge e cessa. Ma il processo non termina con la morte, a meno che non si sia attinto il grado massimo di realizzazione spirituale, l'arahatta. Mi pare di capire che tu su questo non sia d'accordo.

    Poni una differenza tra "rinascita" e "reincarnazione": la prima ha un'estensione maggiore della seconda, poiché il sistema buddhista contempla piani d'esistenza immateriali, ove rimangono soltanto citta e cetasika, ovvero la coscienza e i suoi concomitanti, senza corpo (niente "(re)incarnazione", dunque, in questi livelli, ma "rinascita" sì). Il buddhismo, insomma, ammette la rinascita e, in alcuni casi, la reincarnazione, intendendo con questa l'assunzione di un corpo da parte del viññāṇa o citta, che non sono sostanze immutabili, ma flussi condizionati (esiste proprio, nel lessico buddhista, il concetto di "flusso di coscienza", viññāṇasota, e anche quello di "continuum mentale", cittasantāna). Pertanto, né la rinascita né la reincarnazione sono da intendere al modo della metempsicosi platonica, ove c'è un'anima eterna che passa di corpo in corpo. So che la communis opinio è che la reincarnazione non trovi posto nel buddhismo, ma basta intendersi sul significato che le diamo e possiamo ammetterla nel Dharma.

    Il fatto è che ho letto qualcosa di Sumedho, per sbaglio, e lui distingue reincarnazione da rinascita e siccome mi pare di aver capito che questo signore sia ********* allora ho deciso di allinearmi e usare questi termini.

    Tu, mi pare di aver capito, che addirittura estendi il concetto di rinascita ad altri piani di esistenza, ok.
    Ma non capisco la differenza tra la metempsicosi platonica e i concetti di vinnasota e cittasantana che si reincarnano, in sostanza non è la stessa cosa?

    Grazie
     
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34 replies since 29/3/2024, 17:21   858 views
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