Buddhismo Italia Forum

Posts written by Fantasia

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    CITAZIONE (Ptaah @ 6/4/2024, 08:42) 
    Qui dovrebbe partire la classica e sempreverde discussione sul rapporto che intercorre tra Atman, Brahman, Anatman, Natura di Buddha, e Dharmakaya XD Ma non ne so ancora abbastanza.

    In particolare a me piacerebbe leggere i sutra dove si parla di Anatman, dharmakaya e Natura di Buddha, e capire quanto questi concetti siano stati insegnati dal Buddha e quanto invece dalla elaborazione monastica posteriroe, in particolare per l'anatman, che sospetto fortemente essere stato manipolato dai monaci in seguito (è solo una mia ipotesi, non ne ho ancora conferma).

    In base alle fonti di maggiore antichità cui oggi abbiamo accesso, vale a dire quelle canoniche conservate in lingua pāli, supponendo che, almeno in parte, siano fededegne rispetto all'insegnamento storico del Buddha Gotama (alcune sono indubbiamente posteriori), possiamo dire che il concetto di "natura di Buddha" non vi appartiene. Di contro, la dottrina di anattā ha quanto meno un esteso fondamento canonico: figura in molti discorsi, ivi incluso quello che la tradizione considera il secondo del Buddha, ovvero l'Anattalakkhaṇa-sutta.

    Pur volendo ipotizzare una (per me improbabile) mistificazione del pensiero del Buddha su questo punto, è certo che, storicamente, l'idea di non-sé sia divenuta un elemento identitario del buddhismo, tant'è vero che questo in ambito brahmanico era noto come nairātmyavāda.

    In ambito pāli, il concetto di dhammakāya ("corpo del Dhamma") figura nel Milindapañha, ma con un senso diverso da quello che assumerà in seno al Mahāyāna e al Vajrayāna: semplicemente col significato dell'assieme delle tre sezioni canoniche, ovvero Vinayapiṭaka, Suttapiṭaka e Abhidhammapiṭaka.
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    CITAZIONE (Alessio Rando @ 4/4/2024, 12:54) 
    Io ho sentito diverse volte parlare di assoluto nei circoli Mahayana

    Non so a cosa, in particolare, sia stato associato il concetto di "assoluto" nei circoli mahāyāna che hai frequentato, ma con cautela esso può essere adoprato anche in ambito theravāda, sebbene non sia granché usuale.

    Sgravato dal grande ammasso di significati filosofico-religiosi che vi si sono stratificati nel corso dei secoli, sia in Oriente che in Occidente, l'idea di "assoluto", ricondotta semplicemente al suo significato etimologico, nella tradizione theravāda potrebbe allora essere convenientemente applicata al nibbāna, che è sciolto dalla dipendenza dalle dimensioni spaziale, temporale e causale. Per non essere pedante, evito di fornire i riferimenti testuali capaci di supportare quanto ho appena detto.

    Va tuttavia notato che, proprio per la sua "assolutezza", il nibbāna è indipendente persino dall'essere "scoperto" o meno: che vi siano arahant che ne acquisiscano contezza o che, al contrario, nessuno neppure ne ipotizzi l'esistenza, il nibbāna, immutabile, permane, senza né accrescersi, per numerosi che possano essere coloro che lo "realizzano", né decrescere, per numerosi che possano essere coloro che lo ignorano. Si tratta, infatti, di "qualcosa" - un āyatana, dice il Buddha: "sfera", "dominio", "base", "dimensione" - che esiste al di fuori della storia e delle sue vicissitudini, e come tale non può subire alcun mutamento.
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    CITAZIONE (Ptaah @ 22/3/2024, 19:54) 
    Le NDE possono essere classificate in 2 gruppi: quelle con una struttura standard, e quelle in cui si vedono scenari simili alla religione/cultura/tradizione in cui si è cresciuti.

    Nel primo caso potrebbe esserci qualcosa di metafisicamente vero riguardo il post-morte.

    Nel secondo caso penso si possa affermare senza problemi che siano solo allucinazioni. Si potrebbe obiettare che "ognuno vede il suo aldilà" in stile Moon Knight :lol: ma in tal caso si può rispondere semplicemente che ci deve essere una struttura "standard" necessaria sottostante nel caso in cui non si abbia una cultura ben formata sull'argomento. E dunque si ritorna al primo caso.

    Ad ogni modo ritengo che non ne sappiamo abbastanza: dunque vanno studiate molto di più e con maggior rigore. Con massima obiettività, senza pregiudizi nè fanatismi.

    Concordo sulla necessità di ulteriori studi sul tema, ma dalla prospettiva quanto meno del buddhismo pāli credo si possa sostenere che, quali che siano le visioni di cui si faccia "esperienza", un praticante avanzato, se possibile, dovrebbe osservarle con quel distacco espresso dalla formula canonica "questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé". Ciò a motivo del fatto che, per quanto straordinarie possano essere, si tratta in ogni caso di manifestazioni delle capacità della mente condizionata: non sono l'incondizionato, non sono l'assoluto, non sono la realtà ultima.

    Peraltro, secondo la posizione "ortodossa" del Theravāda, la rinascita è istantanea: alla "coscienza del trapasso" (cuti-citta) segue immediatamente la "coscienza della connessione di rinascita" (paṭisandhi-citta), per cui non vi sarebbe un periodo più o meno lungo in uno stato intermedio tra la morte e la rinascita, il cosiddetto antarābhava. Ma, ammettendo per ipotesi che invece esista, dovrebbe valere quel che ho detto: distacco e piena comprensione della natura condizionata delle visioni.

    Del resto, un praticante avanzato già in vita conosce le formidabili capacità della mente condizionata, come quando, presenti le giuste condizioni, essa permette la manifestazione di quella replica mentale luminosa e pura dell'oggetto di meditazione nota come paṭibhāga-nimitta, accompagnato nel primo jhāna da estasi (pīti) e profonda felicità (sukha): non si tratta di meri fattori mentali, ma di fattori mentali che hanno un forte riverbero fisico, tant'è vero che in un passaggio delle Theragāthā si dice che pītisukha dà l'impressione che il corpo fluttui, come cotone al vento. Dunque, la percezione del corpo nello spazio, di quella che tecnicamente si chiama "propriocezione", viene alterata, ma il praticante ideale dev'essere come Sāriputta nell'Anupada-sutta, dove viene lodato per la sua capacità di discernere uno per uno i fattori dei vari jhāna, conoscendoli al loro sorgere, permanere e svanire, senza attaccamento né avversione. Con salda convinzione, occorre dire anche di questi stati sublimi "questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé": niente, tanto del condizionato quanto di quell'unico incondizionato che è il nibbāna, può esser detto "io", "mio" o il "sé". Tutto è non-sé: sabbe dhammā anattā.

    Addestrandosi con questo esercizio di totale disidentificazione, tanto dalle esperienze ordinarie quanto da quelle di stati alterati di coscienza come sono i jhāna, eventuali visioni nelle NDE non dovrebbero dare adito a interpretazioni di tipo metafisico, circa realtà trascendenti o simili.

    Questa è soltanto la mia fallibile opinione.

    Edited by Fantasia - 3/4/2024, 19:01
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    Grazie del tuo pertinente contributo alla discussione.

    Mi permetto di aggiungere anch'io qualche altro elemento. Innanzitutto, non è soltanto il buddhismo a essere stato letto e reinventato in chiave scientifica, ma, tra le religioni di origine indiana, anche, ad esempio, l'Advaita Vedānta. Se da un lato si può essere d'accordo sulla necessità da parte di ogni religione di confrontarsi con la modernità, dall'altro bisognerebbe evitare che questo confronto porti a una rivistazione talmente radicale delle tradizioni religiose da renderle irriconoscibili. Per riprendere il tuo esempio, la cosmologia buddhista, all'interno perlomeno della tradizione pāli, ha sì una connotazione psicologica (in relazione ai jhāna), ma al contempo rappresenta i diversi piani d'esistenza in cui è davvero possibile rinascere. Ritenere che sia soltanto "psicologica" vorrebbe dire snaturarla e perdere in parte il concetto di rinascita, nella misura in cui verrebbe meno la sua possibilità all'interno dei piani celesti, grazie al "merito" accumulato in virtù della meditazione di tipo samatha.

    Ai giorni nostri, c'è chi intende il Dharma come una sorta di "scienza della mente", ma se la scienza è quell'approccio che, in generale, ha a che fare con l'osservazione sistematica, la misurazione, la replicabilità degli esperimenti etc., ottenendo ovunque nel pianeta gli stessi effetti in presenza delle stesse condizioni, allora è ardito dire che il buddhismo rappresenti un esempio di questa disciplina. Poiché, pur dandosi le stesse condizioni favorevoli al conseguimento dell'effetto meditativo desiderato, non si può prevedere quando e come questo si manifesterà. Chi può dire, ad esempio, che pur in presenza di una circostanza adeguata alla meditazione si sperimenteranno i jhāna? La difficoltà dipende anche dal fatto che c'è grande dibattito su come intendere gli stadi di "assorbimento", per cui il modo d'interpretarli cambia a seconda del maestro laico o monaco. Non essendoci pieno accordo neppure sulla loro definizione, quello che per un insegnante è questo o quel jhāna, per un altro potrebbe non esserlo. Mentre nella scienza - ammesso che si possa parlarne così, in astratto - un aspetto importante è proprio quello della definizione, che dovrebbe essere la più rigorosa ed elegante possibile.

    Il discorso potrebbe proseguire molto a lungo, ma anch'io mi fermo.
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    CITAZIONE (Cuore di Pietra @ 30/3/2024, 18:31) 
    Il fatto è che ho letto qualcosa di Sumedho, per sbaglio, e lui distingue reincarnazione da rinascita e siccome mi pare di aver capito che questo signore sia ********* allora ho deciso di allinearmi e usare questi termini.

    Non ho capito: Ajahn Sumedho è... cosa?

    CITAZIONE
    Tu, mi pare di aver capito, che addirittura estendi il concetto di rinascita ad altri piani di esistenza, ok.
    Ma non capisco la differenza tra la metempsicosi platonica e i concetti di vinnasota e cittasantana che si reincarnano, in sostanza non è la stessa cosa?

    Non sono io a estendere il concetto di rinascita a diversi piani d'esistenza, ma a farlo è la stessa tradizione buddhista, che elenca sei gati, "destini" o "destinazioni": esistenza celeste come deva, esistenza come semidio (asura), esistenza in uno dei purgatori (niraya), esistenza come essere umano (manussa), esistenza come animale (tiracchāna), esistenza come fantasma (peta).

    Per quanto riguarda la differenza tra metempsicosi platonica e viññāṇasota/cittasantāna, il nocciolo della questione sta nel fatto che nel buddhismo pāli il continuum mentale non è assimilabile all'anima platonica, che è di natura eterna, ma si tratta invece di un flusso condizionato. Come tale, è impermanente, insoddisfacente e privo di un sé sostanziale. Quando, poi, manchino le condizioni che ne consentono l'esistenza, esso si arresta. Ciò avviene nel saññāvedayitanirodha e nell'anupādisesa-nibbāna. Il Buddha è chiaro nel Pañcattaya-sutta e nell’Upaya-sutta nel sostenere la dipendenza del viññāṇa da tutti gli altri khandha, ovvero rūpa, vedanā, saññā e saṅkhāra. Poiché nel saññāvedayitanirodha si arrestano (temporaneamente) saññā e vedayita (quest'ultimo interpretato nei commentari come sinonimo di vedanā), la coscienza, citta o viññāṇa (per Buddhaghosa si tratta di sinonimi), non può manifestarsi. Nell'anupādisesa-nibbāna avviene qualcosa di ancora più radicale, poiché a cessare, stavolta definitivamente, sono tutti i khandha, ragion per cui nei commentari il nibbāna finale è noto anche come khandha-parinibbāna.
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    CITAZIONE (eizo @ 30/3/2024, 11:02) 
    non so se hai letto la sua vita, ma buddhadasa visse in periodo di estrema politicizzazione e relativa corruzione del clero buddhista thailandese.
    in questo senso, oltre che modernista, fu un vero e proprio riformista in ambito theravada.
    anche da qui il suo rifiuto per qualsiasi tipo di identificazione religiosa: credo che avesse visto di quante porcherie fossero capaci i cosiddetti "buddhisti" stessi per potersi classificare e definire come uno di loro

    Confesso di non conoscere adeguatamente la biografia di Buddhadāsa e ti ringrazio per avermene dato qualche elemento. Mi sembra di capire che la sua presa di distanza dalle identificazioni religiose dipendesse dalle contingenze storico-politiche cui assistette, e in questa luce il suo "ecumenismo" fosse conforme alla volontà di appianare le divergenze nel tentativo di costruire una sorta di "fratellanza" universale, di là dalla faziosità che troppo spesso storicamente si è accompagnata alle religioni maggiori. Il che è lodevole sul piano delle intenzioni, ma quanto realizzabile concretamente? Torno a ripetere che esistono, piaccia o meno, differenze irriducibili tra le religioni maggioritarie, motivo per cui gli "esperimenti" di dialogo interreligioso alla fin fine non vanno molto oltre un generico "volemose bene".
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    CITAZIONE (Non. Io @ 29/3/2024, 23:47) 
    A proposito della reincarnazione, la gente chiede spesso: “Se non c’è un’anima, come fa a rinascere qualcosa? Che cos’è che continua da una vita all’altra, se non c’è l’anima?”. A dire il vero, la teoria della reincarnazione non appartiene al buddhismo, ma all’induismo. Secondo la visione induista della reincarnazione, passiamo da un corpo all’altro. Se siete nati in una casta inferiore, dovete attendere la prossima incarnazione, la prossima vita, per rinascere eventualmente in una casta superiore.

    Come ho detto e argomentato, sia pur brevemente, in risposta a Cuore di Pietra, credo che si possa parlare di "reincarnazione" anche nel buddhismo, purché si facciano le dovute precisazioni atte a evitare la confusione col concetto di "reincarnazione" cui siamo adusi a partire dalle tradizioni orfica e pitagorica.

    Per quanto riguarda l'annosa questione "chi rinasce?", gli scolastici della tradizione cosiddetta "theravāda" hanno dato una risposta, riassumibile sostanzialmente nell'idea che, propriamente parlando, non c'è "qualcuno" che rinasca (un'entità in qualche modo "personale"), ma una serie di punti-istante mentali rigorosamente impersonali che si succedono l'uno fungendo da condizione causale del successivo, costituendo un continuum generalmente privo di cesure. Alla morte di un soggetto non perfettamente realizzato, come solo è l'arahant, la "coscienza del trapasso" (cuti-citta) è seguita da quella forma di coscienza, chiamata paṭisandhi-citta, che funge da collegamento tra la vita passata e la nuova, per poi cessare, poiché in ogni esistenza si verifica un solo paṭisandhi-citta, seguito dal bhavaṅga-citta: una forma di coscienza subliminale, avente la funzione di garantire la continuità dell'esistenza individuale.
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    CITAZIONE (Cuore di Pietra @ 30/3/2024, 16:22) 
    Comunque tu usi il termine "rinascita", questo, io e altri, lo intendiamo come rinascita della personalità durante l'arco di una incarnazione.
    Se i testi antichi si riferiscono a questo e non alla reincarnazione del continuum mentale in molti corpi, di era in era, credo che quel buddhismo sia quello che non concepisce la reincarnazione ma solo la rinascita.

    Secondo le fonti più antiche cui abbiamo accesso, il Buddha insegnava il punabbhava, vale a dire il rinnovamento dell'esistenza, il ridivenire, la rinascita, e come interrompere questo processo che si reitera da tempi senza inizio.

    La (continua) "rinascita" entro l'arco di una sola esistenza è un fatto reale, secondo l'insegnamento buddhista della cosiddetta "scolastica", poiché la nostra mente al termine di ogni istante "muore" e subito dopo "rinasce", e anche il nostro corpo, composto da cluster materiali in gran copia, detti rūpa-kalāpa, in ogni momento sorge e cessa. Ma il processo non termina con la morte, a meno che non si sia attinto il grado massimo di realizzazione spirituale, l'arahatta. Mi pare di capire che tu su questo non sia d'accordo.

    Poni una differenza tra "rinascita" e "reincarnazione": la prima ha un'estensione maggiore della seconda, poiché il sistema buddhista contempla piani d'esistenza immateriali, ove rimangono soltanto citta e cetasika, ovvero la coscienza e i suoi concomitanti, senza corpo (niente "(re)incarnazione", dunque, in questi livelli, ma "rinascita" sì). Il buddhismo, insomma, ammette la rinascita e, in alcuni casi, la reincarnazione, intendendo con questa l'assunzione di un corpo da parte del viññāṇa o citta, che non sono sostanze immutabili, ma flussi condizionati (esiste proprio, nel lessico buddhista, il concetto di "flusso di coscienza", viññāṇasota, e anche quello di "continuum mentale", cittasantāna). Pertanto, né la rinascita né la reincarnazione sono da intendere al modo della metempsicosi platonica, ove c'è un'anima eterna che passa di corpo in corpo. So che la communis opinio è che la reincarnazione non trovi posto nel buddhismo, ma basta intendersi sul significato che le diamo e possiamo ammetterla nel Dharma.
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    CITAZIONE (eizo @ 29/3/2024, 19:31) 
    dipende da cosa intendi per buddhismo modernista.
    all'interno del cosiddetto "modernismo" - dannate etichette, non ce ne libereremo mai... :rolleyes: - vengono infatti comunemente compresi anche buddhadasa e vari monaci della foresta per quanto riguarda il theravada, o lo stesso thich nhat hanh in ambito mahayana, ad esempio.
    tutti maestri che la rinascita non tralasciano affatto, anzi

    Limitando le mie considerazioni alla tradizione theravāda, per il fatto di essere quella che conosco meglio, Buddhadāsa è infatti, per me, un buon esempio di "modernismo". Lui ha sostenuto - tra le molte altre cose - che tutte le religioni in ultima analisi siano essenzialmente unitarie e non differenti, anzi addirittura inesistenti, una volta attinta la vera natura delle cose, non suscettibile di denominazione nei termini di questa o quella forma religiosa (ivi inclusa quella "buddhista").

    Si tratta di una posizione discutibile. Questo "ecumenismo", se da un lato è apprezzabile, dall'altro è ricolmo di difficoltà insormontabili. Come sostenere fino in fondo, coerentemente, che la Trinità in ultima analisi collimi con la vacuità, ad esempio? Buddhadāsa parla di una realtà ultima non categorizzabile come cristiana né come buddhista né in alcun altro modo, ma allora perché storicamente sono esistiti aspri scontri dottrinali tra, ad esempio, vedāntin e buddhisti, e persino tra buddhisti e buddhisti, e vedāntin e vedāntin, anche da parte di persone notevolmente dotate in termini intellettuali e progredite meditativamente? Śaṅkara, non proprio lo 'scemo del villaggio', arriva a dire che la più grande disgrazia dell'umanità fosse la nascita del Buddha: questo tanto per far capire l'inimicizia tra advaitin e buddhisti!

    Se, come dice Buddhadāsa, alla fine non esiste neppure il "buddhismo", come mai il più grande commentatore del Theravāda, Buddhaghosa, nel suo Visuddhimagga dice che il nibbāna possa essere raggiunto soltanto tramite il Sentiero (sottinteso, quello del Buddha: Vism XVI, 71)? O ancora, ma gli esempi possibili sarebbero molti, come mai una citazione contenuta nello stesso Visuddhimagga dice che l'unica via d'uscita (dal "condizionato") sia il Sentiero, definito come la "vera via da seguire" (Vism XVI, 25)? Se veramente le religioni in ultima analisi fossero in armonia tra loro, una via dovrebbe valere quanto tutte le altre, ma così pare non essere. Ciò può essere provato anche in base al tentativo di dialogo interreligioso portato avanti nel secolo scorso da Henri Le Saux, che per decenni si è logorato per costruire un "ponte" tra Advaita Vedānta e cattolicesimo, senza riuscirvi, almeno dal punto di vista dottrinale. Poi lui, dal punto di vista pratico, alla fine della sua vita ebbe un'esperienza "mistica" che secondo alcuni costituirebbe una riuscita sintesi "esperienziale" tra quei due mondi religiosi così differenti "teoricamente", ma siccome le sue testimonianze al riguardo sono poche e "ispirate" non abbiamo modo di analizzarle precisamente, come vorremmo, per capire cosa davvero abbia vissuto e se ciò possa essere davvero inteso come una "sintesi", sia pure d'ordine "mistico" e non "dottrinale".

    Infine, per quanto riguarda le "etichette", trovo anch'io che a volte mal si convengano a una realtà fluida e resistente alle rigide categorizzazioni, d'altra parte, come ben sai, gli stessi buddhisti, fin dalle prime fonti che abbiamo, mostrano un forte spirito tassonomico, com'è caratteristico peraltro del pensiero indiano (pensiamo al Sāṃkhya, giusto per citare un sistema). L'Abhidhamma porta a compimento l'atteggiamento classificatorio proprio già del Buddha, quanto meno secondo le fonti più antiche che abbiamo, a lui attribuite. Del resto, anche la scienza moderna usa schemi e categorie: pensiamo alle tassonomie in biologia. Oppure, in ambito filosofico, pensiamo alla dialettica platonica. Insomma, ammetto di non comprendere fino in fondo l'avversione alle "etichette".
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    Nel buddhismo cosiddetto "modernista", si tende a sottacere, in maggiore o minor misura, il tema e il concetto stesso di rinascita, alle volte ritenuto inessenziale e tale per cui il Dharma possa sostenersi anche senza. A me sembra, invece, che senza l'idea di rinascita il Dharma si riduca a una sorta di "psicologia" per vivere bene in questa unica vita, senza alcuna pretesa di trascendenza. Ma se guardiamo ai testi antichi in modo imparziale, senza preconcetti e senza forzature ermeneutiche per far dire loro ciò che vorremmo dicessero, constatiamo facilmente che quello della rinascita è un aspetto non marginale, strettamente connesso con l'idea stessa di "salvezza" che questi testi propongono.

    La liberazione, nella formula canonica che tipicamente la esprime, è anzitutto liberazione dalla rinascita: "distrutta è la nascita [o rinascita] (khīṇā jāti), compiuta è la vita religiosa (vusitaṃ brahmacariyaṃ), ciò che doveva essere fatto è stato fatto (kataṃ karaṇīyaṃ), non ci sarà ulteriore esistenza (nāparaṃ itthattāya)”. Il sostantivo di genere femminile jāti significa sia "nascita" che "rinascita", proprio perché nella concezione buddhista l'esistenza non è conchiusa, ma è parte di una serie di innumerevoli cicli di nascita, morte e rinascita, che si ripetono da tempi senza inizio. Rimuovere dall'orizzonte buddhista la rinascita non significa soltanto depauperarlo, restringendone il campo, ma direi proprio snaturarlo, facendone qualcosa che non è più "buddhismo", perlomeno non secondo il framework dato dai testi antichi.

    Lo stesso nibbāna, senza l'idea di rinascita, non avrebbe quel senso profondo che nei testi antichi ha, ma sarebbe ridotto a semplice esperienza di benessere psicologico o, al limite, di una maggiore o minore "beatitudine", ma di natura mondana, non sovramondana, com'è invece nel canone, ove si parla di un āyatana ("sfera", "dominio", "base", "dimensione"...) con caratteristiche affatto contrarie a quelle ordinarie e, finanche, straordinarie, quali sono quelle poste in essere grazie alla contemplazione, persino spinta ai suoi massimi livelli. Intendiamoci, anch'io sono "scettico" sulla rinascita, ma bisogna saper distinguere le proprie opinioni da ciò che un'analisi lucida e spassionata dei testi rivela, senza voler far coincidere le due prospettive a ogni costo, anche al prezzo di travisare e tradire il senso delle scritture. Uso il termine "scettico" nella sua accezione strettamente filosofica, ovvero nel senso di non sapere se la rinascita esista o non esista, ma, proprio per questo, sono ancora alla "ricerca" (sképsis) di risposte, assumendo quale presupposto che un'indagine ben condotta possa portare, se non a certezze incrollabili, quanto meno a conclusioni verosimili.

    A ogni modo, indipendentemente da quale sarà l'esito della mia personale ricerca, dai testi antichi è chiaro che, se non esistesse alcuna rinascita, il messaggio del Buddha non costituirebbe più una vera e propria soteriologia, con un percorso strutturato conducente a una soluzione definitiva e trascendente al problema del "dolore", ma un mero palliativo allo stress. Di qui si spiegherebbero il successo e l'interesse crescenti che raccoglie intorno a sé, da parte di uomini e donne che vivono in condizioni sempre più nemiche della calma interiore. Io non sono contrario a una rilettura in termini contemporanei del Dharma, credo anzi che ogni maestro abbia il compito di attualizzare l'antico messaggio, pena portarselo appresso di generazione in generazione come un "relitto" incapace di parlare agli uomini del proprio tempo; tuttavia, occorre l'onestà intellettuale di dire che il Dharma così inteso risponde all'esigenza di renderlo comprensibile e appetibile agli esseri umani del XXI sec., ma anche di segnalare i punti in cui si discosta e differenzia dall'insegnamento del Buddha qual è dato apprendere dai testi più antichi di cui disponiamo. Quel cui invece si assiste non di rado, sono interpretazioni "moderniste" presentate come aderenti all'essenza del Dharma, che guarda caso coincide sempre con quelle che sono le proprie idee ed esigenze. Qui c'è disonestà, peraltro alle volte in buona fede, ossia da parte di persone che semplicemente non conoscono a sufficienza il Dharma e ne danno letture superficiali piegandolo ai propri scopi, ma senza la consapevolezza di cosa sia il Dharma e in cosa diverga dalle sue interpretazioni moderniste.

    In questo mare magnum del buddhismo "modernista", c'è un Dharma per ogni esigenza: un Dharma misticheggiante o proprio mistico, un Dharma utile in psicoterapia, un Dharma esoterico, un Dharma scientifico, un Dharma filosofico etc. Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Tenendo conto di questa complessa situazione, che tutto sommato ha una storia recente, credo che un compito dei buddhologi sarà quello di ricostruire questa storia, per capirne l'origine e lo sviluppo, per procedere non voglio dire a una critica, ma a una discussione, con fonti alla mano, allo scopo di distinguere ciò che possiamo capire dell'insegnamento del Buddha in base ai testi maggiormente antichi a nostra disposizione - da pochi decenni oggetto di rigorosi studi comparativi tra i "paralleli" - da ciò che invece risulta essere uno sviluppo occidentale nella ricezione del Dharma. Così edotti, ognuno potrà poi liberamente scegliere il percorso più congeniale a sé, ma con cognizione di causa, con contezza di cosa è un'innovazione contemporanea e cosa invece è più antico.

    Non parlo di cosa sia "tradizionale", perché il buddhismo già in antico era plurale, e già nel canone pāli abbiamo tracce di una molteplicità di punti di vista, forse derivanti da tradizioni diverse confluite nel movimento buddhista. Parlare di "tradizione", dunque, sarebbe ambiguo, poiché non solo sappiamo che già il buddhismo antico contava molte scuole, ma anche perché all'interno di una stessa tradizione possono esistere idee diverse, come di fatto è ancora oggi. Quel che si può fare, in base ai testi che abbiamo, è stabilire cosa sia più antico e cosa sia posteriore. Ciò porterebbe a concludere, nel tema oggetto di questa riflessione, che l'idea di rinascita abbia senz'altro radici antiche nel buddhismo, e non possa pertanto essere eliminata senza arrecare un grave "danno" al Dharma.

    Edited by Fantasia - 29/3/2024, 18:20
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    CITAZIONE (bluemax71 @ 19/3/2024, 12:31) 
    (la mente è generata dalla materia e la materia ne decreta l'estinzione)

    Non ne sono sicurissimo. Propongo un'ipotesi, che potremmo chiamare "ipotesi dell'annichilimento corporeo": se il corpo di un essere umano non liberato venisse annichilito all'istante, il continuum mentale porterebbe lo stesso alla rinascita. Da ciò possiamo desumere che il viññāṇa (è questo il khandha coinvolto nella rinascita) dipenda sì dal corpo, ma non in ogni caso in modo imprescindibile. Questo lo capiamo anche dal fatto che nei piani di esistenza cosiddetti "immateriali" (arūpa-loka) esistono soltanto processi mentali, senza supporto materiale. Se volessimo interpretare in un unico senso, materialista o idealista, il canone antico, avremmo serie difficoltà. Come dicevo sopra, il Buddha stesso dice che il viññāṇa dipenda anche dall'aggregato della forma materiale, senza il quale, dunque, non potrebbe esistere, ma per l'appunto si dà il caso di esseri divini privi di corpo fisico, consistenti soltanto di citta e cetasika, coscienza e suoi fattori concomitanti.
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    CITAZIONE (swami chandraramabubu sfigananda @ 19/3/2024, 08:10) 
    Credo che vengano disattivate anche le sei coscienze sensoriali. Forse per continuare l'uso della metafora potremmo/dovremmo solo dire che la pellicola continua a esistere.

    Senz'altro il viññāṇa viene interrotto, perché nell'interpretazione di Buddhaghosa non c'è differenza tra citta, viññāṇa e mano, e poiché il nirodha è detto da Buddhaghosa stesso acittaka, segue che sia privo di viññāṇa. Ora, è in realtà discutibile che citta, viññāṇa e mano siano perfetti sinonimi: servirebbe una ricerca specifica, ma nei sutta mi sembra che talvolta abbiano sfumature semantiche diverse. A parte questo, nel Pañcattaya-sutta e nell’Upaya-sutta il Buddha stesso indica in vari modi la dipendenza del viññāṇa dagli altri aggregati, compreso quello della forma materiale, e poiché il saññāvedayitanirodha costituisce l'arresto di saññā e vedayita (nei commentari interpretato come sinonimo di vedanā), come dice già il suo nome, segue che la "coscienza" in questo stato non possa manifestarsi.

    Nella mia metafora, che peraltro non va spinta oltre misura, per non creare fraintendimenti, la "pellicola" sarebbe il nibbāna, che nel sistema theravāda è ciò che solo è permanente (nicca) e stabile (dhuva). Esso resiste a ogni tentativo di riduzione: è irriducibile, è la realtà ultima, ma non nel senso di una sostanza universale che sia il fondamento metafisico di tutto quel che esiste, né nel senso del "Sé" vedantico.

    Per quanto riguarda il dualismo, credo possa sostenersi che esso esista soltanto per i "frame": sono questi a essere, secondo il principium individuationis, individuati spazialmente, temporalmente e causalmente, costituendo in tal modo la molteplicità fenomenica che ordinariamente percepiamo. Ma i "frame" sono contingenti: per la pellicola, che ne è il supporto, è indifferente che vi siano due, dieci frame o più, come è ininfluente che vi siano questo o quel frame particolari. La dualità sparisce nel momento in cui i "frame" vengano meno. Il nirodha consente questo superamento, per il fatto che, fuor di metafora, la coscienza viene privata di qualsiasi oggetto, senza il quale, data la sua natura intenzionale (in senso fenomenologico, significa che la coscienza è sempre coscienza-di-qualcosa), non può esistere. Soggetto e oggetto vengono meno insieme, e a questo punto rimane l'assoluto, la "pellicola" senza i "frame". L'assoluto è tale anche per la sua indipendenza dai "frame": mentre i frame dipendono dalla pellicola, questa non dipende dai frame. La pellicola senza frame può esistere, ma i frame senza la pellicola no. Ciò vuol dire che il nibbāna continuerebbe a esistere tale e quale anche se non ci fosse nessuno a realizzarlo in quella misteriosa "non-esperienza" di cui parlavo.

    Potendo venire meno, anche soggetto e oggetto si rivelano "contigenti": se contingente è ciò che può non essere, e necessario ciò che non può non essere, allora soltanto il nibbāna è necessario. D'altra parte, anche dire che sia il solo necessario è approssimativo, perché il concetto di necessità si determina in relazione al suo opposto ed è perciò relativo. Non per niente, il nibbāna è atakkāvacara, "non nella sfera del ragionamento", "non nella sfera del discorso logico-razionale": "inconcepibile", potremmo dire. Possiamo usare metafore e altri espedienti didattici per riferirci a esso, ma in ultima analisi qualsiasi cosa diciamo è inadeguata, ed è questo, verosimilmente, il motivo per cui il canone antico tutto sommato non ne parla diffusamente.
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    CITAZIONE (bluemax71 @ 18/3/2024, 14:40) 
    Molto interessante questa tua affermazione.
    Quindi, teoricamente, se le coscienze mentali dovessero smettere di funzionare (cecità , sordità, insensibilità, ecc... ecc... ) si dovrebbe poter estinguere dukkha ? Capito bene ?

    La questione che giustamente poni non ha una risposta facile né univoca.

    Nel buddhismo probabilmente sono confluite tradizioni contemplative diverse che avevano idee divergenti su cosa fosse la liberazione e, quindi, sui metodi appropriati per conseguirla. Si è tentata una sintesi nel saññāvedayitanirodha, conseguimento meditativo ritenuto possibile soltanto attraverso l'uso alternato di samatha e vipassanā, il primo per ascendere attraverso tutti i jhāna, la seconda per renderli oggetti di osservazione alla luce della "triplice caratteristica" di impermanenza, frustrazione e insostanzialità. Il tratto saliente del nirodha è l'arresto che esso produce, anche per diversi giorni consecutivi, dell'intero apparato mentale del soggetto, presumibilmente senza residuo. In questo sommo stato, dunque, non si danno esperienze mentali d'alcun tipo, permanendo soltanto certi processi fisiologici (ma, sorprendentemente, non quello respiratorio!) designati dai termini āyu e usmā, "forza vitale" e "calore". Si parla pertanto della "cessazione" (tale il significato di "nirodha") come "acittaka", "privo di mente", "inconscio" (non, ovviamente, nel senso psicanalitico del termine, ma semplicemente nel senso di "privo di coscienza").

    È una condizione straordinaria che, tuttavia, nonostante la sua apparenza "vegetativa", apre uno squarcio nel condizionato, facendo emergere l'incondizionato e connettendo in qualche modo la liberazione in vita alla misteriosa liberazione finale dell'arahant dopo la sua morte. Il nibbāna definitivo, dal quale non v'è ritorno, è detto nella letteratura esegetica khandha-parinibbāna, per il fatto che in esso i khandha che definiscono complessivamente la nostra esperienza si arrestano definitivamente; nel nirodha avviene qualcosa di quasi identico, con l'unica differenza della persistenza del khandha della "forma materiale". È chiaro, dunque, come questi due "stati" siano prossimi, tant'è vero che in una citazione contenuta nel Visuddhimagga il nirodha è chiamato "nibbāna in vita".

    Questo è il modo in cui la tarda tradizione pāli ha tentato sistematicamente, non senza difficoltà, di coordinare samatha e vipassanā all'interno dello stesso processo orientato alla liberazione. L'insensibilità che citi è, a detta di qualche studioso, caratteristica del nirodha. Ma se si trattasse soltanto di assenza totale di sensibilità, che utilità ci sarebbe nel divenire una sorta di pianta o, peggio, un elemento inorganico? Perché dovremmo aspirare a uno stato in cui tutto ciò che ci costituisce dal punto di vista mentale venga meno, sia pure temporaneamente? Credo invece che il nirodha sia qualcosa di più profondo e, se vogliamo, di misterioso, poiché col totale cessare in esso dell'esperienza si lascia così il posto all'assoluto, che non ricade nell'esperienza, ma che d'altra parte è in qualche modo possibile "conoscere".

    Quando la mente condizionata si "spegne" completamente, emerge l'assoluto. Potremmo immaginare la cosa in questo modo: la mente, con le sue funzioni, coscienti e non, e con il suo continuo succedersi di contenuti, è come i frame di un film: ciò è l'esperienza; quando tuttavia si riesca ad arrestare la mente, in modo da fermare la successione dei "frame", allora rimane la "pellicola": questa è quella misteriosa "non-esperienza" che è il nibbāna. Non si tratta effettivamente di una sostanza, del fondamento metafisico del saṃsāra o cose così, né è qualcosa di "personale" (il nibbāna è come tutto il resto anattā), ma è ciò che rimane quando l'esperienza sia trascesa. Quando, cioè, i khandha vengano arrestati, perlomeno quelli mentali, che peraltro sono la stragrande maggioranza. La pellicola vuota, privata dei frame, non mostra niente, eppure è il residuo ineliminabile che si scopre allorché ogni frame sia sottratto. Quando, fuor di metafora, ogni esperienza mentale venga meno. Non emerge, a questo punto, una super-coscienza, un "Sé", anzi "il" Sé, ma la fine di ogni stato condizionato, oltre il "principio di individuazione" attraverso cui le esperienze ci sono date, definite in modo spaziale, temporale e causale. Il nibbāna finale è altro da ciò, ma il canone antico evita di parlarne, probabilmente in modo deliberato, poiché ogni descrizione sarebbe a rigore inadeguata.

    Spero di averti dato qualche spunto di riflessione. A disposizione per chiarimenti su quanto ho detto e per tentare di rispondere, se ne sono in grado, ad altre domande.
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    Premesso che le questioni che poni non sono affatto di facile risoluzione, tanto meno nelle poche battute consentite in un forum, quello che brevemente mi sento di dirti è che se da un lato è vero che il nostro approccio ordinario alla realtà sia mediato dai sensi e l'elaborazione dei loro dati da parte del sistema nervoso centrale, dall'altro il buddhismo insegna a trascendere i limiti della cognizione normale. La meditazione, nelle sue fasi più avanzate, spegne la mente, sia nei suoi aspetti coscienti che in quelli subconsci, aprendo a una visione immediata della realtà.

    L'attività cognitiva, responsabile dell'apparizione del mondo, ivi incluso quello onirico, allorché venga interrotta nei suoi normali modi operativi consente di travalicare l'esperienza, portando a "conoscere" ciò che rimane al suo superamento: il nibbāna, l'incondizionato, il non-composto, l'assoluto, se preferisci: "assoluto" nel senso di essere sciolto dalla dipendenza dalle dimensioni spaziale, temporale e causale, e finanche dall'essere realizzato o meno. Che se ne conosca l'esistenza o meno, che lo si realizzi o meno, il nibbāna permane, sovranamente indipendente, di là dal principium individuationis.

    In senso schopenhaueriano, il "principio di individuazione" è quello che determina la pluralità dei fenomeni, individuati e distinti l'un l'altro, ed è curiosa la convergenza, benché soltanto superficiale, tra la filosofia teoretica di Schopenhauer e la prassi meditativa buddhista, poiché entrambe ritengono che il modo ordinario di percepire il mondo non aderisca alla sua autentica natura. Entrambe tematizzano la possibilità di attingerla, superando il "velo" che la occulta. Notoriamente, S. parlava di "velo di Māyā", il Sammāparibbājanīya-sutta in modo non del tutto dissimile parla di vivaṭṭacchada, "che ha sollevato il velo", aggettivo spiegato dal relativo commentario come vivaṭarāgadosamohachadano, ovvero il cui velo di rāga, dosa e moha è stato rimosso. Soltanto una mente purificata è in grado di superare il velo (chada) dell’illusione e ottenere così una conoscenza e visione conformi alla vera natura del mondo, senza i fuorvianti rovesciamenti cognitivi che da tempi senza inizio nascondono il vero aspetto delle cose.
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    Di Francis Tiso è disponibile su YouTube la registrazione di un suo intervento alla Gregoriana:

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